A Gianpaolo, l'amore della mia vita
Nel 1971 avevo 21 anni, ero nato nel quartiere e lo conoscevo molto bene, come le mie tasche. Davanti alle finestre della mia casa, al quarto piano di un palazzone color verde pisello, s’apriva la grande piazza rotonda, con un pratino d’erba stinta, dove tutti i cani del rione venivano portati ogni giorno a fare la cacca. C’erano alcune panchine di legno scrostate, che erano il ritrovo del nostro gruppo, decine e decine di ragazzotti e ragazzotte, nati negli anni ’50, nel dopoguerra milanese e che lì avevano trovato uno dei nidi della città, che si espandeva inesorabilmente a macchia d’olio, ingollando a poco a poco le campagne e le cascine.
Avevo ventun anni e come tutti quelli del mio quartiere avevo un’arma! Eravamo da sempre ragazzi di strada, abituati a giochi duri, fin da piccoli ci si rompeva la testa, ci si sbucciava le ginocchia, si spaccavano i vetri delle finestre con le fionde, e poi dopo a casa sberle dai genitori.
La mia pistola era un revolver calibro 6 Flobert, una cosa piccola, quasi da niente, l’avevo comprata da “Vasini Armeria”, vicino a casa, era una pistola che sparava pallini da 6 mm. Io però l’avevo un po’ modificata: alesando il tamburo l’avevo trasformata in una calibro 22 L.R., così era diventata proprio una pistola vera!
Me ne andavo con gli amici a sparare ai barattoli, in una vecchia cappella di campagna sconsacrata, laggiù dietro alle collinette artificiali formate dalle discariche dei rifiuti, che contenevano gas metano che ogni tanto sfiatava all’esterno e di notte dava origine a degli inquietanti fuocherelli che danzavano sulle superfici erbose.
Era il profondo sud di Milano, dove la città finiva tra le campagne e le cascine abbandonate.
La pistola era diventata la mia compagna fedele, un’amica che mi dava sicurezza, mi faceva sentire a posto; quando uscivo, la indossavo automaticamente quasi fosse un paio di guanti, me la mettevo in tasca e via…
Un sabato d’inverno, la nebbia si era appena alzata, e io avevo appuntamento con gli amici, i soliti, si andava a farci una bella sparata collettiva, giù alla cappella. Sentii suonare il campanello, mi alzai di scatto dal letto, presi la pistola che tenevo in una scatola da scarpe dentro l’armadio, me la infilai nella cinta dei pantaloni, sotto il pullover e scesi di corsa le quattro rampe di scale.
Eccoci giù sulla piazza erbosa, ma prima di andarcene verso i nostri territori amici, c’era il tempo di un bel Negroni al “Bar Sola”: “una fazza, una razza” come direbbero in Grecia, nel senso della sola… Era uno dei numerosi bar del quartiere, uno di quelli un po’ borderline, dove non andavano certo i bimbetti a comprarsi il gelato o a giocare a flipper, insomma un baraccio di terza categoria, ritrovo dei malandrini della zona, dove potevano discutere in santa pace dei loro affarucci che dovevano essere solo sussurrati.
Quella mattina il bar era affollato, per l’appunto c’era anche il mercato rionale e fra gli avventori erano tanti gli ambulanti che si venivano a prendere un caffé o un poncino bello caldo. Entrammo anche noi. Io, Carlo Caporali, Nano e Giovannino. Il tempo di ordinare e sentii una mano posarsi sulla mia spalla, avvertii subito che non era un tocco da fata, mi voltai di scatto e vidi il grugno di uno che non conoscevo, ma che aveva il puzzo da sbirro e mi guardava fisso e quello sguardo non era affatto amichevole, masticava una gomma americana e mi disse biascicando anche le parole:
“Favorisca i documenti prego!”
Fu un attimo, i soliti attimi che durano una vita: ebbi il tempo di guardarmi intorno, e vidi che il tizio non era solo, erano entrati altri due con lui che si erano diretti verso altre direzioni all’interno del bar e anch’essi chiedevano i documenti alle persone. All’improvviso la pistola nella cintura si fece pesante come se si fosse trasformata in un’incudine e sembrava volermi cadere in mezzo alle mutande da un momento all’altro.
Fu un attimo e mentre quello aveva appena finito di pronunciare la sua richiesta, i miei occhi cercarono quelli di Carlo Caporali che era proprio lì vicino a me, gli feci cenno guardandomi la pancia proprio all’altezza della pistola, come per dirgli: “Prendila te, e vattene!”, invece per tutta risposta il pirla che fece? Abbassò gli occhi e fece finta di niente, anzi si allontanò piano, piano, e mi lasciò lì con il mio peso sulla pancia.
Fu un attimo e nella mia testaccia capelluta frullarano i pensieri a mille all’ora, se a quello dopo aver guardato il mio documento veniva in mente di perquisirmi e toccacciarmi un po’, la mia amica sarebbe venuta fuori e sarebbe venuto fuori anche il mio lavoretto e poi, e poi… sarebbe successo un bel casino!
Mi guardai intorno per cercare come salvarmi e all’improvviso nel fumo stagnante del locale intravidi come d’incanto delle facce conosciute: Michele e sua moglie che stavano mangiando qualcosa seduti a un tavolo. Michele era un mio vicino di casa, un piccolo pusher, lo conoscevo bene, a volte c’avevo comprato della “maria”. Mi rivolsi allo sbirro guardandolo negli occhi e con aria quasi scocciata gli risposi: “Si un attimo solo, c’è lì un mio amico seduto a quel tavolo che non vedo da molto e mi ha appena chiesto di andarlo a salutare. Permette vero?”
Con voce esagerata chiamai i miei amici: “Ehi Michele, ciao Anna… quanto tempo, ma che fate di bello?” Intanto che procedevo verso di loro, il poliziotto, sempre dietro alle mie spalle come fosse il mio angelo custode, mi seguiva imperterrito. Mentre camminavo pensavo a cosa potevano fare per me quei due, che intanto si erano accorti di me e si guardavano un po’ stupiti, come per dirsi: “Ma che ha quello stronzo da gridare tanto, se ci siamo visti appena ieri!”
Finalmente fui vicino a Michele, gli misi amichevolmente una mano sulla spalla, premendogliela forte, richiamando così la sua attenzione, lo guardai facendogli gli occhiacci, dopo di che mi alzai il maglione di scatto e feci intravedere il mio gentile ciondolo, quindi ripresi a sorridere come se niente fosse.
Si può dire tutto di Michele, tranne che fosse tardo di comprendonio, anzi per quelle cosette lì c’aveva proprio il santo. Vide subito il ferro, e dire che di lì a poco si sarebbe ritrovato un proiettile come quello di quella pistola conficcato nel cuore,dove gli rimase per il resto della sua vita eterna. In quel momento Michele, guardando dietro le mie spalle si accorse dello sbirro che non mi mollava, capì tutto il giochino e da bravo “fratello”con un tocco da Mago Silvan, mi sfilò dolcemente l’arma dalla cintura e la fece sgusciare dentro la borsetta della moglie posata lì per terra accanto alla sedia, anche lei entrando in sintonia perfetta con il salvataggio in corso, si sfilò il foulard dal collo, lo fece scivolare nella borsa, sopra la pistola e così terminò l’opera.
Finalmente! Quei pochi secondi mi erano sembrati eterni!
Tirai un sospirone di sollievo, ora ero di nuovo pulito come un bebè, con la mia faccia a culo delle grandi occasioni sfoderai un sorrisone a sessantaquattro denti e rivolgendomi al piedipiatti dissi: “ Mi scusi agente, ma sono vecchi amici che non vedevo da anni, ma dica… è successo qualcosa di brutto qui nel quartiere?”
Quello con l’espressione schifata dipinta in faccia, masticando la solita cicca, mi ringhiò: “ Non fare tanto lo spiritoso!” e intanto cominciò a frugarmi nelle tasche della giacca e in quelle dei pantaloni e, sfilandomi il portafogli, s’impossessò della mia carta d’identità; guardò la foto e poi di nuovo alzò gli occhi sopra di me, come in cerca di qualcosa di sbagliato, alla fine mi mollò il documento quasi a malincuore, fece un cenno col capo agli altri, per dire che lì non c’era altro da fare che levarsi dalle palle.
Questa volta si erano proprio sbagliati e di grosso, perché poi venni a sapere che quelli lì cercavano proprio delle armi, sapendo che in quel bar ne giravano spesso!
Nel frattempo Michele e sua moglie avevano finito di mangiare e dopo aver pagato il conto al bancone erano usciti tranquillamente dal locale, c’eravamo appena salutati: era meglio così per il momento.
Qualche giorno dopo lo cercai per recuperare la pistola, me la riconsegnò tranquillamente non chiedendomi niente, fui io che sentendomi in debito verso di lui gli dissi: “ Grazie per l’altro giorno, mi hai tolto da un bell’impiccio, se posso fare qualcosa per te… lo faccio molto volentieri!”
Michele mi guardò un po’ cercando dentro di sé quello che avrebbe potuto chiedermi per pagare il mio debito, sapevo bene che con certi tipi è sempre meglio sdebitarsi subito, perché non si sa mai un domani che cosa potrebbero chiederti… Alla fine mi scodellò la richiesta: “ Ah ecco, prestami un po’ la tua moto per qualche giorno, la tua Kawasaki è proprio figa!”
Gliel’ho prestata. Me l’ha resa dopo più di un mese!
Non avevo interrotto i rapporti con la mia fida “amica”, continuavo a sparacchiare con gli amici appena ne avevo voglia, però non chiamavo più quel deficiente di Carlo Caporali che quel giorno se l’era squagliata lasciandomi in balia degli sbirri. Quelle sparatorie caserecce ci rilassavano in qualche modo, dopo aver lavorato tutta la settimana, dopo le corse di qui e di là fra la nebbia fitta della città Che si poteva fare d’altro laggiù nel quartiere? Pochi danè, poche donne, qualche canna, le manifestazioni non erano più per noi che non si studiava ormai da tempo, le pistole invece ci davano soddisfazioni, ci s’illudeva di chissà cosa poi… ci si sentiva un po’ come Robert De Niro in Taxi Driver, quando ormai di fuori come una biglia si guardava allo specchio col suo pistolone tenuto a due mani.
Il ricordo di quella perquisizione però ogni tanto mi ritornava alla mente e cominciavo a pensare che quel giocattolo era stato manipolato (ciò era un reato bello e buono), poi il revolver era intestato a me, forse era meglio farlo sparire, perché quei giochetti fra amici mi sarebbero potuti costare cari. Le alternative erano solo due: o smettere o passare al gioco duro!
Milano non era più quella della mia infanzia, e neanche il quartiere, avevo però dei bei ricordi in fondo anche di quella città-mostro: io da piccolo col nonno a fare merenda nelle vecchie osterie, con pane, salame e sottaceti, noi due in bicicletta, con la canna da pesca andare giù al Laghèt, una piccola cava alimentata da una sorgente, vicino alla ferrovia, a pescare cavedani e piccole carpe che la nonna ci cucinava la sera.
Ora, alle 9 di sera la città si svuotava, appena gli impiegati e gli operaiacci erano rintanati in casa, dalle vie più centrali fino alle periferie più lontane, era come se ci fosse il coprifuoco, un coprifuoco non dichiarato da nessuno, ma incombente e oscuro. Se avevi dimenticato le sigarette, te le potevi scordare fino all’indomani mattina, perché per trovare un bar aperto c’era da fare i chilometri e le macchinette automatiche erano perennemente devastate. C’era una guerra sotterranea che ogni tanto scoppiava all’esterno, prorompeva dai buchi della metropolitana, si spandeva come gas venefico, e si manifestava con bombe, attentati, omicidi per la strada, vetrine infrante, rapine, scorribande di camionette della polizia che si abbattevano sui cortei di manifestanti. La città era diventata tenebrosa, anche in pieno giorno e in ogni stagione e la nebbia, a causa degli impianti di riscaldamento a carbone, era più fitta e appiccicosa di quella di oggi.
Gli uomini non erano più uomini, ma bersagli, birilli,ingranaggi, limoni,sempre qualcos’altro, ma mai più persone di carne e fiato!
Anch’io nella mia ignoranza di quartiere me n’ero accorto, le cose erano cambiate in pochi anni e fra poco ci sarebbe stata la mazzata finale: una nevicata memorabile di polveri mefitiche di colore bianco neve che avrebbero ottenebrato le teste, rendendole leggere, leggere e alla fine le avrebbero fatte rotolare via come sotto i colpi della ghigliottina.
Gli amici erano sospettosi l’uno dell’altro, c’era sempre la paura che qualcuno te lo mettesse nel culo alla prima occasione, la fiducia era quasi scomparsa e si poteva darla giusto allo stracchino Galbani o al panettone Motta per Natale.
E siccome compresi che in fondo io non ero come lo scorpione della favoletta dello scorpione e la rana, che io non l’avrei mai pinzata la ranocchia, che sì, ero anch’io un po’ bastardo, ma solo un po’e, ahimè, per Milano non era abbastanza!, allora quell’arma era diventata un problema e il problema bisognava affrontarlo e risolverlo e per risolverlo occorreva che quella pistola sparisse di circolazione. Sì, ma come?
In quei giorni, come ho già detto, molti avevano armi e molti altri ne avrebbero volute, e, ancora, alcuni ne volevano molte. Insomma, per le leggi del mercato, il prodotto tirava di brutto, bisognava solo incrociare la domanda con l’offerta.
Tenendo sempre le antenne della mia testaccia accese, ben presto mi venne all’orecchio che un mio conoscente, uno del quartiere forniva documenti falsi e i dané per poter acquistare regolarmente delle armi e poi fare delle rapine ad altre armerie e, in un secondo momento, quando l’arsenale era sufficiente, assaltare banche per finanziare la guerriglia urbana auspicata da “Autonomia Operaia”.
Non c’erano cristi, erano cose in grande, molto in grande, anche se a quel tempo sembrava tutto possibile, in fondo s’era in tempo di guerra, e le cose che prima erano impensabili diventavano d’incanto normali.
Conoscevo l’elemento, anche se di striscio, si chiamava Rocco, era un po’ più grande di me, un siciliano di seconda generazione, uno che era stato studente, ma che ora non lo era più da tempo, un politico, un picchiatore del Movimento Studentesco. Aveva pensato tanto o forse aveva pensato troppo poco, insomma questo tipo si era messo nell’Autonomia, un gradino un po’ più sotto delle Brigate Rosse forse, ma sempre ai primi posti nell’ hit parade del terrorismo rosso.
Per dei ragazzi di strada come me, tutto ciò era quasi snob, roba da fighetti, anche se picchiavano sempre fighetti rimanevano, gente che blaterava, blaterava, ma poi a volte batteva l’angolo al momento del bisogno; l’unica cosa buona che propagandavano erano gli espropri proletari, quelli sì che erano divertenti e utili. Ricordo sempre quella volta che alla Standa di Piazzale Fratelli Rosselli andò via la luce per un black out: Alé… fu la festa nella penombra complice! Le brave massaie che ogni giorno andavano lì a fare la spesa, si ritrovarono in una situazione ideale, nell’anonimo buio dei saloni, arraffarono il più possibile, quello che veniva alle mani: mutande, pentole, scope, bicchieri, sciarpe, cappelli e poi con le borse e i carrelli stracolmi di ogni ben di Dio, sciamarono verso le uscite, prima che la luce tornasse; le commesse erano evaporate nell’oscurità e nessuna sirena poteva suonare; era avvenuto un vero e proprio esproprio contro una sorta di multinazionale del consumo, una specie di autoriduzione dei prezzi.
Noi, quelli che non avevano fatto le scuole grosse, eravamo per dire pane al pane e vino al vino, eravamo sempre un po’ ai limiti, pronti a imbarcarci in qualche truffa ai danni dei padroni, dei potenti, degli arricchiti o semplicemente degli arroganti, ma cercando, se possibile, anche di divertirci e così facendo spesso si buscavano di santa ragione: dalla pula, da altre bande dei quartieri vicini, da quelli più grandi e più cattivi, ma mai dai fasci, con loro non c’era storia gli si davano sempre di brutto.
Questa volta però per risolvere questo mio problemino della pistola dovetti cercare proprio uno dei “politici”…
Mi misi alle sue calcagna senza però chiedere troppo in giro, non volevo assolutamente che si sapesse quello che volevo fare. Alla fine lo trovai, era solo, lo abbordai con una scusa e poi iniziai io a spararle più grosse che potevo sulla situazione del proletariato e via dicendo. Alla fine del pistolotto gli buttai lì: “C’avrei qualcosa di peso, mica ti interessa l’articolo? Non è neanche caro, sai io me lo sono fatto in casa, così per passione e poi con questi bastardi di fasci che scorrazzano e cercano di provocarci, se gli fai vedere il giocattolo si smontano subito! Sì però ora non lo posso più tenere penso di andarmene da qua e diventa troppo pesante portarmelo dietro.”
Rocco non mi fece quasi finire le mie fanfaronate, si dimostrò molto interessato, tagliò corto e semplicemente disse: “Quanto vuoi?”.
Volevo almeno fargliela provare, magari giù alla cappella abbandonata, ma lui niente, sembrava avesse il fuoco al culo, si limitò a concordare il prezzo e, senza neanche tirare troppo, gli strappai le cinquantamilalire.
Prima di consegnargli la mia calibro 22, feci alcune cosette per precauzione, indossando dei guanti per non lasciare le mie impronte sul ferro, ripulii accuratamente l’arma di ogni numero di riferimento, poi la misi in un sacchetto di plastica e così bella netta gliela consegnai.
Mi sono domandato tante volte che cosa ci abbia fatto Rocco con quella pistola, credo però che qualche volta l’abbia usata, perché lui dopo un po’ venne beccato: “Fiancheggiatore dell’Autonomia Operaia milanese” lo definirono i giornali e tra i molti capi d’imputazione c’era anche rapina a mano armata, in alcune banche e anche in diversi uffici postali… Rocco c’aveva provato davvero ed era finito dentro, ma tanto di cappello al vecchio politico, non aveva mai parlato, o come si diceva non era un infame, non si era pentito, quindi si era fatti i suoi begli annetti di galera, tutti quanti, uno dopo l’altro senza sconti.
Passarono gli anni, le cose cambiarono anche nel quartiere, i bravi ragazzi, compreso me, si erano fatti grandi, lavoro, mogli, figli, oppure cimitero, psichiatrie, bordi delle strade, dipende… Una cosa però era rimasta, quella pistola, non sapevo se fisicamente esisteva ancora, ma sapevo che negli archivi polverosi della polizia, nel commissariato del quartiere, era registrata ancora a nome mio e… e ciò era ancora nella mia testa.
Un giorno, avevo poco più di trent’anni, mia madre morì all’improvviso per uno dei soliti banali errori medici. Mio padre rimase solo nell’appartamento dai muri verdi, che nel frattempo erano diventati gialli canarino, forse quello era il momento giusto per far sparire del tutto quell’arma che mi portavo dietro da troppo tempo.
Nella casa, diventata improvvisamente grande, c’erano da mettere a posto un po’ di cose. Se ne approfitta sempre quando succedono le disgrazie, si fa un ripulisti degli oggetti vecchi e superflui lasciati dal caro estinto, anche per avere qualcosa da fare e non pensare troppo al proprio dolore. Fu così che in uno di quei momenti, tra un pacco e l’altro da riempire, trovai le parole per parlare con mio padre, gli feci una sorta di confessione, sì ma non proprio esatta; gli parlai della pistola, che lui ricordava come un giocattolo, sì però gli dissi che quel giocattolo l’avevo dovuto comunque registrare alla polizia, e poi invece, chissà come, l’avevo persa, probabilmente in uno dei miei traslochi, ma non avevo mai fatto denuncia, forse ora era venuto il momento di farla.
Lui con la sua vecchia faccia scavata da rughe profonde, con l’eterna nazionale pendente dalle labbra, non si scompose più di tanto: figurarsi, mio padre non l’avevo mai visto emozionarsi o tradire un sentimento, sempre quell’espressione un po’ così sul volto di uno che non si stupisce della vita, che “tant l’è istess”.
Continuando a riempire gli scatoloni con una certa nonchalance mi disse con la sua voce bassa: “Ma si, ‘dess me ricordi! Quand te se ‘ndà via de là, la prima volta, ho svuià l’armuar e ho trà via tüch i cianfrùsai i gioegh de piscinin, ho fa un sachetün de roba che l’è finida nella discarica. De sicür ghera anca quella pistuletta!”.
Bene il più era fatto, non mi restò che chiedergli di accompagnarmi al commissariato, così sarei stato più credibile, e se volevano una conferma potevano chiedere direttamente a lui.
Mio padre non disse niente ma, conoscendolo bene, capì che tutte quelle mie preoccupazioni nascondevano di certo qualcosa che non potevo confessare, e lui non mi chiese niente di più.
Così in quei giorni, come se fosse stata una delle tante pratiche che si debbono sbrigare alla morte di un congiunto, io e mio padre salimmo la scalinata che porta al commissariato di quartiere; davanti a un agente che stilava il verbale di denuncia, io declamai ben bene la mia pappardella e mio padre si comportò in maniera impeccabile confermando pari pari le mie parole in stretto dialetto milanese.
A un certo punto il poliziotto un po’ scocciato, sia dall’argomento della denuncia, sia dal milanese, guardando prima me e poi mio padre nel suo accento meridionale, per nulla nascosto, esclamò: “Ma che minchia ve le diamo a fare noi le armi se poi le buttate via… Boh!”
Beato lui…lo lasciai volentieri alle sue convinzioni e sottobraccio a mio padre cercai il bar più vicino per brindare al cadavere della mia vecchia amica che era stato finalmente sepolto per sempre.
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