Italia De Profundis è una biografia accidentale ed essenziale, nel senso aristotelico dei termini. Un percorso anti-paradigmatico, un tuffo di testa in un’acqua bassa: un’esistenza che è appunto accidente ed essenza, un viaggio raccontato senza orpelli e con uno sguardo disincantato sui meccanismi dominanti, nonché sfuggenti ad ogni logica.
Ma c’è anche di più. Sopra ogni rappresentazione, sopra ogni evento, sopra ogni scelta, si staglia lo sguardo cadenzato dell’autore, la sua necessità di infrangere la superficie, di sondarli, penetrarli, gli abissi miserrimi della conoscenza e dell’azione e di risalire poi de profundis, lanciando il suo grido silente ma acutissimo di indignazione, di rabbia rappresa, di impotenza a tratti kafkiana a tratti assecondata. A partire dalla discesa agli inferi imposta, terribilmente, fin dal primo capitolo: la morte nel suo processo di ineluttabilità e decomposizione, nell’insensatezza del show must go on, nel vuoto titanico con cui, chi rimane, è costretto a misurarsi.
Un romanzo declinato all’umano: è l’uomo che fa scorrere gli eventi, è l’uomo che corrode, che spera invano, che imbroglia, che uccide. Si affonda il bisturi nell’arcano dell’Io, si opera su un’infiorescenza incancrenita, un Io che è altro da Giuseppe Genna ma ne è al contempo contenuto e vissuto, un Io che si dilata all’Italia intera, ai suoi sproloqui, alla sua pochezza, ai brandelli di storia storpiata e alle sue commedie. Impietosa e lucida la descrizione oggettiva della marcescenza del Bel Paese: «Gli italiani stanno raggiungendo il culmine dell’idiozia. Concionano. Berciano contro le tasse. Non si smuovono. Non intuiscono la crepa. [...] Nemmeno la morbosità, nemmeno la rassegnazione, nemmeno l’indignazione hanno più presa su questo popolo diviso in due caste sommarie, la ricca e la povera che vive nella finzione di una ricchezza elusiva [...]».
Credo che un autore come Genna possa facilmente infastidire gli animi stupidi. Ci vuol poco, per irritare questo genere di lettori. Basta pungolare le loro granitiche certezze con facili messinscene e coreografie da due soldi. Per un artista come Genna, che le certezze le rende prima di cartapesta, poi le calpesta e ci sputa sopra sdegnato, il gioco finisce dove comincia la vita e, con essa, la narrazione. Vede lo scorrere dell’insensato, lo registra nell’anticamera del suo intelletto e lo rifilma nella telecamera del libro. Non ci sono finzioni cinematografiche, semmai solo metacinematografiche. E allora il lettore è catapultato nel grande teatro del festival di Venezia, ha il privilegio di interloquire con David Linch e di bearsi della kermesse artistica in cui il divismo contende la scena all’arte pura.
La forma risponde alla legge dell’entropia che disordina materia e spirito: registri aulici e rubati dai bassifondi, raffiche di domande introspettive, stream of consciousness, invettive, latinismi, volgarismi, citazioni si diluiscono in un italiano perfetto e lo coinvolgono in nuove dimensioni sperimentali. In questo profluvio, una certezza: nessuna parola è per caso. Ed ecco che l’entropia dell’Io, del suo opposto, si ricompone nella stessa deflagrazione di cui l’Italia è luogo deputato. E dal luogo passa alla forma, dal contenuto al contenitore. Manca la maturità letteraria –o la speculazione teorica– per una classificazione. Così, per spiegare in che senso quest’opera non possa esaurirsi nella definizione di romanzo –o finta-autobiografia, o autofiction– Genna, citando il saggio “New Italian Epic” dei Wu Ming, lo definisce con una non-definizione, che però è la formula più appropriata: oggetto letterario non identificabile.
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