In Buon sangue non mente Giuseppe d’Onofrio, perito ematologo dell’ospedale Gemelli di Roma, scava nei suoi dieci mesi da protagonista al processo Juve (gennaio-ottobre 2004, prima sentenza febbraio 2005) e analizza il fenomeno del doping nello sport italiano attraverso i documenti che gli sono stati consegnati. A partire dalla cartella clinica di Conte, ricoverato alle Molinette per ematoma traumatico avvenuto durante la finale di Champions League, fino al caso del laboratorio antidoping del CONI all’Acqua Acetosa, a quello delle dichiarazioni di Zeman («Nel nostro ambiente girano troppi medicinali. Io vorrei che il calcio uscisse dalle farmacie.... ») e alla famosa fotocopia dell’emocromo di Di Livio. Si tratta di un libro non schierato apertamente contro qualcuno e neanche contro il doping: è semplicemente la testimonianza di un ematologo chiamato a dirimere e risolvere i conflitti tra consulenti della difesa e dell’accusa sui dati ematologici dei calciatori. Il suo è un racconto personale, preciso e puntuale, non un saggio scientifico, è la storia di un’esperienza vissuta in prima persona, a partire dal fatidico momento: Alle ore dodici e ventisei minuti del 9 gennaio 2004 Giuseppe d’Onofrio, riceve da Casalbore -giudice monocratico del processo sul doping che investì la Juventus (in particolare contro le persone di Antonio Giraudo, amministratore delegato, e Riccardo Agricola, capo dello staff medico, imputati entrambi con l’accusa di frode sportiva)- l’incarico di perito super partes per rispondere ai seguenti quesiti come «E’ vero che la somministrazione di ferro, Epo e altro comporta la variazione dei parametri dell’ematocrito? Le variazioni osservate nei calciatori sono fisiologiche, compatibili con le attività fisiche, o indicano l’assunzione di farmaci?». La perizia da lui redatta mette alle corde la società juventina: il medico, evidenziando variazioni inspiegabili dei valori ematologici dei calciatori juventini, fornì una prova quasi certa dell’uso di Epo o di trasfusione e non è un caso che, il 26 novembre 2004, il Tribunale di Torino condannò a 22 mesi il medico sociale Riccardo Agricola per frode sportiva (sentenza poi ribaltata in appello perché il fatto all’epoca -frode sportiva e somministrazione pericolosa di farmaci- non costituiva reato).
Questo libro non si limita alla cronaca dei fatti: è anche la storia del suo autore, un uomo che, da solo, si è trovato nella posizione scomoda di sfidare i piani alti del potere, in un clima rovente in cui si è cercato di minare la sua credibilità davanti ai giudici e all’opinione pubblica attraverso attacchi diretti e personali, evidenziando errori piccoli e inesistenti nella sua perizia. Ma è d’Onofrio stesso a scagionarsi, non con la retorica bensì con la scienza: Per quanto mi riguarda, io resto convinto di averne trovata una solida [di verità]. Non nelle testimonianze, non nelle ipotesi, non nei contraddittori. Nell’emoglobina. Eh già. Come diceva un mio vecchio professore di ematologia: buon sangue non mente. E, oltre allo stuolo di nemici, l’autore ha avuto modo di provare anche la solidarietà: Viene a porgermi la mano un viso magro e noto: «Piacere sono Marco Travaglio». Rapido cortocircuito neuronale. Si, è lui, sta seguendo il processo, è ovvio, ho letto i suoi articoli, fondamentali, sull’Espresso. Mi apro in un largo e lieto stupore. «Marco Travaglio? Ma io sono un suo grandissimo fan!» «Da oggi», risponde lui, « sono un suo fan anch’io».
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