Questa è la seconda parte dell’intervento, qui di seguito c’è il link alla prima (rubriche/7520)
Michael Woodiwiss, autore di Gangster capitalism, docente universitario inglese di Storia americana, ci porta in tutt’altra direzione. Inizia il suo saggio con una ricostruzione diacronica della ‘lotta alla criminalità’ che parte dai primi del Novecento, dalla proibizione dell’oppio e altre ‘droghe’ esotiche, passa dal Proibizionismo e dal New Deal, e arriva al vero punto di svolta di tutto il discorso sulla repressione della criminalità: le politiche di Nixon sulla ‘guerra alla droga’ e il contemporaneo allentamento, sempre ad opera dell’amministrazione Nixon all’inizio degli anni Settanta, delle normative che regolamentano e sanzionano i crimini corporativi: evasione fiscale, falso in bilancio, riciclaggio. Il tema centrale di Gangster capitalism è l’esportazione, dagli Stati Uniti al resto del mondo, di tali politiche di law-enforcement. Woodiwiss sostiene che gli Usa hanno creato nel corso dei decenni lo spauracchio di una criminalità organizzata di natura ‘altra’, cioè essenzialmente proveniente dall’esterno e inquinante la sana moralità anglo-sassone, contro la quale hanno poi diretto sempre più massicciamente caparbiamente e vanamente gli sforzi di regolamentazione e sanzione.
Emerge così un elemento nuovo e radicale nell’analisi delle forme di criminalità attuali: quello istituzionale-legislativo, politico oltre che economico; e soprattutto finanziario. Il modello presentato da Naìm, abbiamo visto, può essere sintetizzato come aggiornamento dei vecchi prototipi obsoleti. Il successore del Padrino e del Trafficante è un padrino trafficante ‘d’ampie vedute’, webbizzato globalizzato diversificato decentralizzato; abile uomo d’affari che traffica le merci più disparate mettendo la propria maestria comunicativa e relazionale al servizio dei clienti in ogni angolo del pianeta.
Ma il discorso che fa Woodiwiss in Gangster capitalism è diverso e più incisivo. Per lui non si tratta di aggiornare lo schedario, di includere nuovi profili, di perfezionare le tecniche di controllo e di lotta ai traffici illeciti come suggerisce invece Naìm in uno degli ultimi capitoli del suo reportage. Per Woodiwiss la radice del crimine sta nell’assenza di regole chiare per il mondo degli affari legali; i quali affari, fuori controllo, assumono sempre più tratti criminali, uscendo dai propri confini e andando a confluire nel mare magnum della delinquenza organizzata. Il movimento tratteggiato da Woodiwiss è quindi di segno opposto a quello proposto da Naìm: non più criminali incalliti che si reinventano globalizzandosi, bensì uomini d’affari legali che sempre più si allontanano dalla legalità favoriti dall’assenza di norme restrittive e di una chiara volontà legislativa da parte delle istituzioni.
Il decentramento e l’internettizzazione di cui parla Naìm hanno dunque anche questo effetto: indeboliscono il potere coercitivo dello stato-nazione e la sua capacità di proibire e regolamentare.
Cosa ha a che fare tutto questo con la narrativa noir? In che modo questi due saggi e le loro relative prospettive sul crimine organizzato coinvolgono il nostro discorso sul genere? Per quale ragione ci si è presi la briga di sintetizzare ed esporre i contenuti di due opere non narrative, dopo due anni di articoli riguardanti esclusivamente romanzi e romanzieri?
Per rispondere a queste domande è necessario introdurre un concetto che era stato accennato in uno dei primi articoli di questa rubrica: l’idea della verosimiglianza del noir. Il succo del discorso era che, diversamente dai generi fantastico-speculativi, il noir si affida per la resa ottimale delle proprie storie a situazioni, personaggi e schemi narrativi verosimili, vale a dire realistici, credibili, non fiabeschi né contraddittori della realtà percepita. In sé e per sé questa notazione è abbastanza sterile, forse anche banale, ma in questa sede essa acquisisce una portata decisiva: la verosimiglianza del noir impone al genere stesso di rispettare la realtà nella quale esso viene pensato e scritto.
Il Padrino e il Trafficante, la loro concretezza corporea, la loro riconoscibilità come entità altre, stranieri, virus invasivi-invadenti un organismo sano, sono finiti. Le loro storie appartengono al passato. Il noir oggi deve cominciare a occuparsi d’altro, se non vuole perdere il contatto con la realtà. Questo cambiamento di prospettiva non è cosmetico, non si tratta di sostituire un nuovo stereotipo al vecchio, giusto per non passare di moda. Si tratta bensì di seguire la realtà in questo suo spostamento dal piano eminentemente fisico, empirico, concreto e immediatamente intuitivo, a uno più astratto, più sfuggente, addirittura virtuale. L’assassino che elimina la propria vittima sparandole o strangolandola o pugnalandola fa parte di una vecchia visione della realtà, che era rispecchiata da noir tradizionale, dall’hard-boiled, dal giallo perfino. Adesso la criminalità organizzata è astratta, lontana dalla strada, lontani i luoghi in cui vengono prese le decisioni in cui si muovono i soggetti agenti, incorporei i crimini che essa commette e le minacce che fa pesare sulle persone.
Per questa ragione è necessario che la narrativa si adatti e cambi, e cominci a cambiare le storie che racconta e i personaggi cui dà vita. Altrimenti diventerà nient’altro che intrattenimento fantastico. Non si tratta qui di ‘seguire l’attualità’ o scopiazzare dalle cronache dei giornali temi e soggetti per romanzi. Lo spostamento tematico-contenutistico che deve prodursi è più sottile e più profondo: è qualcosa che riguarda il tessuto stesso della nostra realtà storica, della nostra percezione di essa e del nostro posto in essa. Tutto questo non può essere ignorato, se si vuole creare una narrativa sensata e mantenere il carattere di verosimiglianza che il genere noir possiede fin dallo Straniero di Albert Camus.
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