Forse non c’è nulla di veramente nuovo o forse tutto è veramente nuovo…
Di sicuro Tomas Alfredson, a differenza della Hardwicke, non teme di guardare nell’abisso della mors tua vita mea ed ecco allora, a partire dal libro di John Ajvide Lindqvist (davvero notevole…), un film stranamente rallentato e quasi dimesso nell’ambientazione, che mentre racconta di un incontro, quello tra un bambino di nome e Oskar (Kåre Hedebrant) ed Eli (Lina Leandersson), racconta al tempo stesso qualcosa di strettamente connaturato al dolore e alla sofferenza, declinando le materie nell’ordine dell’essere fino in fondo ciò che si è (umani o vampiri in fondo non fa molta differenza quando si ha poco a che spartire col resto del genere umano…), dell’uccidere per sopravvivere (in particolare per Eli…), e del crescere perché così è che la natura richiede.
Tanti temi alti, forse più di quanto un film come Lasciami entrare riesca a contenere, con al centro due solitudini. Ora quando due solitudini si incontrano o fanno soltanto una solitudine più grande oppure riescono in qualche modo a farsi compagnia, a scaldarsi un po’, complice un cortile in comune dove rifugiarsi quando di quattro pareti non se ne può più, un cubo di Rubik da risolvere, e qualcos’altro, ad esempio una diversità reciproca che funziona come calamita che attrae due poli opposti l’uno verso l’altro. Ad unire entrambi, al di la della specie, che per volontà di Eli (bambina vampira di struggente intensità), rimarrà differente, sarà anche la progressiva emersione dei due da una condizione “infantile”: Oskar dalla madre ed Eli dal suo “tutore”, figura per metà paterna e per l’altra metà tragica, che armata di coltello, tanica e maschera a gas stordente, uccide per tentare di procurarsi il sangue necessario alla sopravvivenza di Eli.
Pur se nel confronto il film perde parecchio in termini di complessità rispetto al romanzo, Tomas Alfredson dimostra ampiamente di saper sfruttare fino in fondo quello che rimane. Si concentra sulla composizione dell’inquadratura lavorando sia sulla profondità, primo piano e sfondo quindi, sia sul piano orizzontale, dividendo spesso lo schermo in due (vedi la scena d’apertura dove sulla sinistra dello schermo scorrono i titoli e sulla destra una fitta nevicata…), a segnalare il tema di due mondi che si incontrano e arrivano a guardarsi l’uno dentro l’altro.
Non è allora un caso se una delle scene finali, collocata all’interno di una piscina, scena dove chi ha molto infierito su Oskar si troverà a dover scontare una punizione fin troppo crudele, è un capolavoro di costruzione visiva e sonora dove non c’è bisogno di vedere e ascoltare tutto per capire esattamente quello che sta accadendo sopra il pelo dell’acqua.
Forse non il miglior film in circolazione, ma di sicuro il migliore quanto a regia…
Presentato fuori concorso al 26mo Torino Film Festival.
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