Ti definisci “autore indipendente”, che cosa intendi esattamente?
Indipendente perché mi sono autoprodotto i miei romanzi senza perdere tempo a inviare manoscritti a case editrici e rimanere anni a macerarmi nell’attesa di una risposta. Indipendente perché scrivo quello che voglio senza sottostare alle regole del mercato. Indipendente perché non appartengo a nessun clan letterario né ho protezioni di personaggi influenti del mondo dell’editoria. Sono un cazzo di autore indipendente da tutto e da tutti, faccio quello che credo sia necessario, e se avrò un futuro sarà solo merito mio.
Hai pubblicato i primi tuoi libri con lo pseudonimo Michelangelo Merisi, nome anagrafico del pittore Caravaggio. Come nasce il tuo interesse per l’arte?
Ho fatto l’antiquario per più di vent’anni, specializzandomi in pittura antica: la specializzazione è avvenuta sul campo, toccando e osservando i quadri dal vivo, comprando una valanga di libri d’arte e studiando correnti pittoriche e artisti – provenivo dall’Istituto Tecnico Nautico, poi da un anno universitario di Agraria e dalla frequentazione di un corso di regia al Dams, quindi avevo una preparazione vasta ma generica, e molto lontana dal mondo dell’antiquariato e dell’arte; mi ha aiutato parecchio il fatto di avere una spiccata sensibilità per la pittura, quella del seicento in particolare, e come dicono i miei ex colleghi, sono uno che c’ha occhio. Ho scritto ex colleghi perché da più di tre anni ho lasciato quel mondo: è un mestiere che, se vuoi farlo al meglio, devi esserci dentro sempre, ventiquattro ore su ventiquattro, niente feste o vacanze, sempre pronto a partire per arrivare primo sul pezzo importante. Ho fatto questo passo perché la scrittura me lo ha imposto, non posso fare in contemporanea due mestieri così totalizzanti, e ho fatto una scelta, nemmeno troppo dolorosa.
Che lavoro fai, oltre allo scrittore?
Ora per vivere, e per permettermi di scrivere, ho trovato un lavoro a mezza giornata in una darsena vicino a casa, tengo efficienti e pulite le barche, così l’altra metà della giornata la posso dedicare alla scrittura, quando i miei figli me lo permettono.
Il lavoro che svolgi è molto romantico (nel senso letterario del termine). Immagino che ti conceda molto tempo a tu per tu con te stesso. A cosa pensi più di frequente, durante il tuo lavoro in solitudine?
La solitudine è una delle componenti primarie del mio nuovo lavoro: solo io e le barche, in un posto da sogno fatto di pini marittimi e acqua salata che si mescola a quella dolce del fiume, con lo spettacolo delle Apuane a fare da cornice. Chiaro che la testa mi parte ed io la lascio fare, accetto ogni sorta di pensiero, stupido o profondo che sia; e non nego che più di una volta mi è venuto da fare dei conti e dei confronti rispetto alla vita che facevo prima, ma ho retto il colpo. La cosa che mi spaventa – ma forse non dovrebbe, visto che qualcuno dice che il vero scrittore scrive sempre, anche quando pensa - è che tutte le riflessioni, mentre le penso, le metto su carta, le scrivo e le riscrivo in bella scrittura, aggiusto la frase e la punteggiatura, e ci costruisco attorno paragrafi e trame; insomma, continuamente, faccio romanzi.
Qual è, secondo te, lo shining di Caravaggio come pittore?
La sua inesorabile naturalezza. E che coraggio c’è voluto per metterla in pratica in un periodo in cui la pittura era didascalica e pura accademia! La sua forza è stata quella di trasporre la crudezza della vita su tela, sovresponendola e mettendola sotto gli occhi di tutti col suo inarrivabile contrasto tenebre/luce. Caravaggio è stato il pittore nero per eccellenza, sulla tela e nella vita.
Usando lo pseudonimo di Michelangelo Merisi per firmare i miei primi romanzi, cercavo di investirmi della sua forza artistica, sperando in qualche modo di seguire e continuare il suo insegnamento usando le parole e non il pennello. Perché questo vorrei fare con i miei romanzi, raccontare senza filtri cosa è la vita e mettendo in primo piano la crudeltà dell’esistenza.
Questa compenetrazione tra arti arrichisce il testo? In che modo?
Solo se funzionale alla storia che si narra, mantenendo la cosa perfettamente in equilibrio, in maniera che la scrittura ne esca arricchita e non appesantita, e il testo ancora perfettamente legato alla storia principale.
Tu affermi di partire dalla realtà per approdare alla narrazione. Ma non è un’arma a doppio taglio? Non sei condizionato dal fatto che debba sempre e comunque succedere qualcosa nella tua vita?
Voglio scrivere storie verosimili dove ognuno si può riconoscere. E la realtà è molto più cattiva della fantasia, a volte al limite della crudeltà estrema, e ti spiazza, ti ribalta l’esistenza, ti affossa senza possibilità di recupero; e proprio questo è quello che cerco, la svolta imprevista nelle vite di persone comuni. E poi, se ci pensi bene, qualcosa succede sempre e comunque nella vita di tutti; qualcosa di grande o insignificante, di perdonabile o insopportabile, qualcosa che si può tenere a bada per sempre o che d’un tratto esplode in violenza delirante; non esiste una vita piatta e scialba, non esiste una vita monocorde, qualcosa accade sempre, tutti i giorni, qualcosa che per altri non ha importanza ma che per me, come autore, può essere la chiave di volta di un romanzo.
Cosa c’è d’inventato, nell’investigatore Merisi? O meglio, quale sua/suo qualità/difetto frutto d’invenzione letteraria non ti appartiene?
Ti confesso che tutto quello che è Merisi io sono; l’ho scritto e descritto sulla mia persona, pregi e difetti compresi. È stato un dazio che volevo pagare a una persona e un po’ a me stesso: la storia d’amore che vive Merisi è vera, è la mia, e questo è stato l’unico modo per spiegare ad una persona come sono andati i fatti, cosa è accaduto; di persona non sono riuscito, ho dovuto scriverlo, sapendo che lei avrebbe letto il romanzo.
E in “Biondo 901” (Perdisapop), da quali elementi autobiografici hai attinto?
Mi sono ispirato a persone reali che poi ho modificato smussandone il carattere e accentuandone i difetti, ma tutti e quattro governati dal medesimo comune denominatore, l’amore.
Anche in “Biondo 901”, come nel romanzo “Imperfetto”, l’amore è un elemento fondante ma costruttivo ai fini della storia e dell’evoluzione del personaggio. Sei d’accordo?
Sì, assolutamente. In ogni mio romanzo l’amore ha un ruolo principale, quindi anche il rapporto uomo/donna in ogni sua derivazione e comportamento, nel bene o nel male; fondamentalmente credo che l’amore sia il sentimento più nero che possa esistere, che rende capaci di atti estremi di dolcezza e romanticismo, ma anche di sprigionare il male peggiore dell’essere umano. In Biondo 901 gli elementi autobiografici sono disseminati lungo tutto l’arco narrativo e in tutti e quattro i personaggi, donna compresa.
Traspongono il tuo libro in film, che cast immagini adatto?
Per Biondo 901, nella parte di Giordano, scelgo senza indugi Alessandro Bertolucci che già lo ha portato in teatro come monologo (www.alessandrobertolucci.com). Per Letvania vedrei bene Natasha Stefanenko, che non dovrebbe faticare a inventarsi uno slang italiano/kazako. Nella parte di Doppiopetto potrebbe starci Claudio Santamaria, che è facile da odiare e amare; e come Fabio B. vorrei ingaggiare Valerio Mastandrea: mentre scrivevo la storia – e immaginavo che per un colpo di fortuna sarebbe potuta diventare un film – pensavo proprio a lui, perfetto e credibile, con quella faccia da uomo comune.
Se invece dovessero trasporre in film il mio Imperfetto, bè… quella parte me la sono cucita addosso, saprei essere convincente come attore. Tutto sta a trovare un regista fuori di testa che accetti di farmi recitare. No no, scusa, cancella le ultime righe, forse è meglio che mi limiti a scrivere.
Quale spazio, nella scrittura, riservi alla forma?
La mia prima preoccupazione è la qualità della scrittura, che viene – assolutamente – prima della storia; tendo ad una scrittura semplice ma allo steso tempo complessa, odio i termini ricercati, le frasi arzigogolate, i rimandi troppo acculturati; la mia scrittura deve essere come me, vera, diretta, cattiva (nel senso di non portare pietà), e anche romantica se vuoi, ma necessariamente senza fronzoli.
In questo periodo di (a volte inutili) disquisizioni letterarie sulle diverse classificazioni del genere, tu come ti poni?
Come scrittore nasco giallista solo perché è l’unico genere che conosco veramente bene, e perché un mistero, grande o piccolo, in un romanzo, è perfetto per tenere alta la concentrazione del lettore e tenerlo appiccicato alle pagine – un piccolo perdonabile trucco –; ma quello che mi piace realmente mettere in scena, quello che vorrei fare, è scrivere della condizione umana, dell’uomo e delle sue piccolezze, delle sue insicurezze, le tribolazioni, i dubbi, e la sempre problematica relazione con le donne – ma di questo ti sei accorta. Sin dai miei primi romanzi è il vero punto focale della narrazione, e, attenzione, questo me lo ha fatto notare un attento e preparatissimo lettore/critico, io non avevo le idee così chiare, ma per fortuna adesso sto messo un po’ meglio. Mi stanno strette le etichette, più che altro odio le mode e le correnti, e anche essere definito noir o noirista non mi sta bene: ne ho discusso tempo fa con Luigi Bernardi e siamo giunti alla conclusione che i miei romanzi sono letteratura nera italiana. Semplice ma efficace, no?
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