Ottone è sprofondato in un enorme e un po' sfondato divano rivestito di velluto logoro e vissuto e rosso e sorseggia lentamente caffé da una grossa tazza gialla.

E' dimagrito Ottone da quando si nasconde qui a Parigi, esule di una guerra civile che in Italia più nessuno ammette esserci stata, come se in galera avesse mangiato meglio che in questa nuova libertà francese.

Io sono sprofondato in una poltrona altrettanto sgangherata e logora ma di velluto blu e mi giro tra le mani un libro che ho appena comprato alla libreria italiana "Tour de Babel" (libreria che dà un po’ l’idea di luogo di ritrovo di ex-italiani), che è poco lontana da questo caffé che sembra un po' quello del telefilm "Friends", ma più oscuro e vissuto e più parigino e più intellettuale e un po' snob e al limite del pretenzioso con i suoi libri in svariate lingue in precarie e piccole e colorate librerie di legno poco pregiato addossate al muro e le riviste e i quotidiani di vari paesi sparsi in ogni dove, in pieno Marais, in questo quartiere di Parigi che mi ha assorbito come se io fossi un inchiostro e lui carta assorbente, mi ha inglobato, e io mi ci trovo bene, assorbito e un po' invisibile, come tutti questi ex terroristi o presunti tali.

Ottone invece vorrebbe ricominciare a lottare, non gli piace il mondo che si è ritrovato dopo una vita di prigione: è vero fa schifo, in fondo lui in galera ci è andato perché voleva in qualche modo cambiarlo, pensavamo che la pistola fosse ormai l'unico suono che avrebbero ascoltato, ma io ho chiuso con la lotta, con l'impegno politico.

Io mi trovo bene a Parigi, in questa Parigi un po' da ricchi e un po' da rifugiati e un po' da scappati di casa e un po' alla moda e un po' decadente e un po' frutto di una propria elaborazione mitologica, e per ora tutto questo mi basta. La lotta no, non mi interessa più.

Mi piace questa idea di "adesso sono qui, e non so per quanto tempo ci starò, e nessuno mi chiede conto del perché io stia qui ad accumulare giornate lente, giornate pigre senza uno scopo".

Mi piace essere lontano dall'Italia e dalle Langhe, dal mio isolamento autoimposto, da altre giornate pigre e solitarie. Mi piace questa città enorme ma che un piccolo ed accogliente nido te lo trova sempre, e sempre che tu conosca qualcuno, e che questo qualcuno sia in qualche modo collegato con flussi di soldi che circolano veloci, soldi dei quali è meglio non chiedersi la provenienza.

Apro il libro che ho comprato alla "Tour de Babel" e che si intitola "Il quinto passo é l'addio" di Sergio Atzeni. Leggo poche righe, alzo gli occhi e li poso su Ottone che sta scrutando dubbioso il fondo della sua tazza di caffé.

Nel caffé entra Simone, la mia vicina di casa, che mi sorride ma va a sedersi su un'altra poltrona sgangherata, verde, e si immerge nella lettura di Liberation. Simone insegna in una scuola in un quartiere periferico.

Ottone alza gli occhi dalla sua tazza e osserva Simone con i tratti del viso un po' più rilassati: a Ottone piace molto Simone, ma lei é sfuggente e Ottone, dopo il carcere, poco propenso ai rapporti umani, in modo particolare a rapportarsi con l’altro sesso, si sta abituando lentamente a vivere nuovamente insieme alla gente, e non è facile, per niente. La prigione fa danni, e spesso irreparabili.

Ottone mi guarda e poi sposta lo sguardo su Simone.

 

In questi giorni mi succede una cosa strana ed inquietante: incontro persone morte. Be’ è chiaro che detto così è un po’ una cosa da pazzi furiosi, ma è esattamente quello che mi accade. Anche se la spiegazione più plausibile è che incontro persone che somigliano a persone che conoscevo e che sono morte: così suona più razionale, ma qual è la verità? Ma non è importante per me una spiegazione plausibile, perché intanto io continuo ad incontrarle. Ovunque, e sempre più spesso. Ieri ho incontrato per strada, vicino al caffé dove vado spesso, una ragazza che ho amato anni fa e che è morta. Si è suicidata. Si è impiccata nel carcere di Cuneo. E io dopo quasi venti anni la incontro a Parigi. In questo modo ho già incontrato una decina di persone morte: sono pazzo? E’ possibile, ma la qual cosa non mi risolve il problema. Io non voglio più incontrare persone morte, punto. E’ quantomeno destabilizzante.

Devo smettere di pensare al passato? Ma io non ci penso al passato. Ma forse è per questo motivo che continuo a incontrare persone morte, persone che arrivano direttamente del mio passato. Forse devo cominciare a pensare al passato? O forse, più semplicemente devo convivere con i morti che incontro tutti i giorni, magari cominciare a salutarli questi morti, a trasformare i morti in vivi. Forse così, magari, se ne andranno.

Ottone quando ho incontrato la ragazza morta suicida mi ha osservato e mi ha chiesto:

“Tutto bene? Sei bianco come un lenzuolo.”

“Come?” ho domandato io.

“Hai visto un fantasma?” mi ha domandato.

“Forse sì…” ho detto guardando Ottone negli occhi.

“Un bel fantasma?” ha domandato con un piccolo sorriso scherzoso.

“Sì…”

“Lo conosco?” ha chiesto Ottone.

“Sì…” ho detto sospirando.

Poi ho guardato Ottone che mi guardava preoccupato e ho tentato un sorriso.

Ma non mi deve essere venuto tanto bene.

 

A furia di incontrare morti per strada mi è venuta una nuova mania: vado sempre più spesso a passeggiare nei vari cimiteri di Parigi.

Ottone mi ha accompagnato un paio di volte, giusto al Père-Lachaise, e giusto perché lì c’è la tomba di Jim Morrison, poi  mi ha detto che nei cimiteri lui si deprime troppo e non è più venuto. Meglio, davvero. Da solo è tutta un’altra cosa.

Al Père-Lachaise vado spesso a far visita alla tomba di Marcel Proust, ma il più delle volte cammino lentamente senza una meta precisa, leggendo i nomi a caso, le date di nascita e di morte, le fotografie, immaginando vite, storie, avvenimenti fantastici e morti.

Mi piacciono anche i cimiteri di Montparnasse e di Montmartre.

Mi sono comprato i volumi che compongono la “Recherche” di Marcel Proust e ho cominciato a leggerla. Mi porto sempre un libro in tasca, leggo ovunque, lentamente, in francese, è diventata quasi un’ossessione (un’altra).

Cammino molto, cammino tutto il giorno, macino chilometri su chilometri. Prendo poco la metropolitana. Cammino, mi fermo in un caffé, apro il mio libro di Proust e leggo, e bevo caffé, e mangio ottimo fegato d’oca in padella e sapienti omelette e piatti di formaggi favolosi, e bevo birra, e vini bianchi e rossi e rosé, e cammino ancora.

Vado da un cimitero all’altro, e mi fermo sul lungo Senna e apro il libro di Proust e leggo ancora.

Incontro i miei morti, ma non mi spavento più: li saluto e sorrido e non mi curo delle loro inquiete reazioni.

Sono a Parigi e sono contento di esserci. Sono esattamente dove vorrei essere, e faccio esattamente quello che ho voglia di fare.

Sono a Parigi e ne sono consapevole.

La mia guerra è finita, e questa volta per sempre.

Ottone mi fa un cenno con un movimento rotatorio degli occhi indicando l’entrata del caffé.

Simone è appena entrata con un libro sotto il braccio. La saluto con un cenno minimo della mano, Ottone mi imita, Simone sorride e va a sedersi alla sua solita poltrona amaranto sfondata.

“Dovresti chiederle se vuole sedersi qui con noi” dico.

“Perché?” domanda Ottone ottuso.

“Come perché…si vede che ci muori dietro” affermo osservando il caffé che a quest’ora della sera comincia a riempirsi.

“No, non è vero” si schernisce Ottone.

“Certo, come no…”

“E’ così” insiste.

“Fai un po’ come ti pare” dico definitivo.

Ottone mi guarda ma non dice più nulla e guarda anche lui le persone che entrano ed escono dal locale, anche lui ascolta i discorsi vaghi della gente.

“Franco mi ha trovato un lavoro” afferma sospiroso.

“Sì, bene…e cosa farai?”

“Lavorerò in una libreria-caffetteria italiana che hanno appena aperto” dice lentamente, probabilmente proiettandosi in questa nuova attività, vedendosi già a preparare caffé e proporre libri italiani ai clienti, magari ex terroristi come lui, e come me.

“Bene…e dov’è questa libreria-caffetteria?”

“E’ qui nel Marais…a due passi…”

“Bene…sei contento sì…” dico.

“Insomma…ma sì va bene…ho bisogno di tenermi impegnato, ho bisogno di fare qualcosa, di guadagnare dei soldi anche…Tu non ne hai bisogno invece…”

“Già, io non ne ho bisogno…c’è chi ha lavorato anche per me nella sua vita…”

“Tu non hai mai lavorato vero?” domanda Ottone.

“No, mai…” dico, ed è vero, mai lavorato.

“Da non crederci” dice divertito Ottone.

Quello che si vede dalla finestra è quello che mi sarebbe piaciuto sempre vedere da una finestra: gli incredibili e meravigliosi tetti di Parigi.

Mi sarebbe sempre piaciuto vivere a Parigi e adesso che sono qui ne apprezzo ogni momento, me li gusto, me li respiro.

Voglio essere consapevole di dove sto vivendo, e voglio esserlo per tutto il tempo. E non mi interessa il motivo che mi ha portato qui. Non più.

La cosa che mi chiedo è: perché non l’ho fatto prima, avrei potuto, perché dire “mi piacerebbe” ma non fare nulla per trasformare quel mi piacerebbe in un vero piacere, perché sognare le cose invece di viverle, perché diventare consapevoli e pigri  schiavi delle abitudini? Non lo so, oppure lo so ma non voglio più pensarci, e adesso sono qui e sono felice di esserci. Punto.

Sono a Parigi! Suona maledettamente bene.

L’alloggio dove vivo è nel Marais, ed è un piccolo bilocale all’ultimo piano di un antico palazzo con terrazzino di pietra con vista sui tetti grigi.

Sul tetto attaccato al mio terrazzo vive un enorme gatto dal folto pelo bianco e nero: non si fa toccare ma il mio cibo lo apprezza molto.

Il gatto, che in un momento molto ispirato ho battezzato Gatto, è lì che mi guarda, a distanza di sicurezza, ed è infilato per tutta la sua lunghezza tra le tegole del tetto.

“Gatto” lo chiamo.

Lui volta lento il suo enorme testone rotondo, sbatte gli occhi gialli, si struscia contro le tegole.

“Gatto, sei proprio un idiota” dico.

Gatto fa le fusa e si allunga tutto tirando le zampe davanti e di dietro come se avesse ricevuto un complimento.

Sposto lo sguardo sui tetti grigi, sul cielo grigio, penso che sono a Parigi e sorrido. Sorrido per il semplice fatto che sono a Parigi. Sospiro e sorrido per il fatto che sorrido per il semplice fatto che sono a Parigi.   

Un bambino biondo di tre o quattro anni spinge una bambina  dai capelli lunghi neri che cade a terra e comincia a piangere disperata, come se le avessero sparato, o l’avessero accoltellata. Un terzo bambino, un po’ più piccolo, osserva la scena con due occhi chiari spalancati e la bocca atteggiata a serietà, o qualcosa del genere.

Un paio di giovani mamme si alzano di scatto, l’una per soccorrere e l’altra per punire. Una terza mamma rimane sulla panchina e osserva tutto attenta.

Io dalla mia panchina alzo gli occhi dal mio libro di Marcel Proust e osservo un po’ i bambini, che ormai piangono entrambi, e un po’ Place des Vosges scaldata da uno splendido sole di fine autunno e mi godo una delle mie poche sigarette della giornata.

I bambini stanno di nuovo giocando come se non fosse successo nulla e le tre mamme continuano a vigilare dalla loro panchina.

Le tre mamme però continuano a studiarmi e a parlottare fra di loro.

Mi osservano con sguardi sempre più sospettosi.

Guardano i loro bambini e poi guardano me, si scambiano frasi corte e secche, mi guardano sempre più apertamente e, direi, con odio o qualcosa che ci somiglia molto.

Io leggo il mio libro, mi guardo intorno, mi godo il sole e la bella piazza e le tre giovani mamme mi squadrano, mi sezionano, mi incasellano, probabilmente, tra i pedofili, o tra i rapitori di bambini, o tra gli orchi, o in tutte e tre le caselle.

Mi guardano proprio con odio ormai.

“Ciao, se mi offri una sigaretta ti salvo dalle tre cacciatrici di uomini sospetti” dice una voce femminile alla mia destra.

Mi volto.

La voce è di una ragazza sui venticinque anni che spinge una passeggino con un bambino dentro, presumo.

“Come?” chiedo.

“Una sigaretta e mi siedo qui con te e così le tre super mamme la smettono di ossessionarti, o mi sbaglio?” dice.

Prendo il mio pacchetto di Gitanes e lo passo alla graziosa ragazza che mi si è seduta di fianco.

“No, non ti sbagli proprio” dico passandole il mio accendino di plastica nera.

“Ancora due minuti e avrebbero chiamato la polizia…lo hanno già fatto più di una volta, sono paranoiche” dice lei.

Lei butta un’ occhiata al bambino nel passeggino, annuisce.

“Il primo?” dico.

"Il primo cosa?” dice lei.

“Figlio” affermo indicando il passeggino.

“Oh, non è mio” dice.

“Allora sei tu quella che rapisce i bambini” dico sorridendo.

“Qualcosa del genere” dice anche lei sorridendo.

“Lavoro?” e indico ancora il passeggino.

“Qualcosa del genere” dice sorridente ed enigmatica.

Osservo le tre mamme cacciatrici di pedofili ma loro ormai guardano me e la mia nuova famiglia con un sorriso di complicità, come a dire “con una moglie e un figlio fai parte della nostra razza, non puoi che essere uno di noi, non puoi essere un orco”. Poi però si scopre sempre più spesso che gli orchi hanno moglie e figli. Ma vai a spiegarglielo.

Sposto l’attenzione sulla mia compagna di panchina: un metro e settanta, magra dentro una gonna corta gialla con spesse calze rosse a righe blu, un giubbotto blu corto, capelli lunghi biondi, bel viso allungato, occhi verdi che ridono.

Parliamo per più di un’ora di tutto e di niente finché il bambino nel passeggino comincia a frignare disperato e non la smette più.

Lei mi scrive un numero di telefono, mi dice chiamami, davvero, chiamami, e se ne va di corsa.

Le tre mamme mi riguardano con sospetto.

Mi alzo, passo vicino alla loro panchina, faccio “Buuu…” con la mia voce da orco cattivo e me ne vado anch’io.

Sul biglietto, che è poi una pagina strappata di una moleskine nera, c’è  scritto, in una pessima calligrafia, Virginie e una sfilza di numeri, troppi?, mi ha dato un numero falso?

Il telefono in questo scuro caffé di Montmartre è sotto terra ai piedi di una scala vicino alle toilettes, di fianco ad un distributore di preservativi, il tutto poco illuminato da una lampadina arancione.

Compongo il numero che sembra troppo lungo e quando veramente qualcuno risponde ne sono molto sorpreso.

“Sììì?” sibila una voce femminile.

“Sono l’orco di Place des Vosges” dico mentre una signora sui cinquanta esce dal bagno e mi guarda preoccupata. Sorrido e lei scappa via. Sembra che la parte di orco mi riesca molto bene. Ma in fondo il mio è un passato da vero cattivo.

Dopo un attimo di silenzio la voce al telefono dice:

“Ciao…”

“Volevo invitarti a cena, o a pranzo o a colazione o a un tè danzante o a un rapimento di bambini…”

“A cena…a cena andrebbe bene” dice lei.

“Dove vorresti andare?” domando.

“Mi inviti a cena e non sai neanche dove?” chiede divertita.

“Ma io sono uno straniero a Parigi” affermo candido sorridendo al distributore di preservativi.

“Allora ti porto io in un bel posto…ti piace il sushi?

“Non lo so, mai mangiato il sushi…pesci crudi ma morti…ma lo assaggio volentieri” dico.

Mi dà un indirizzo, mi spiega che è una via alle spalle di Place de la Bastille, mi dice che mi vede volentieri, molto volentieri, mi dice ti piacerà il sushi, ne sono sicura, non può non piacerti, mi dice ciao ci vediamo lì.

Franco mi ha raggiunto nel mio solito caffé nel Marais dai divani sfondati. Non ci frequentiamo molto qui a Parigi.

Lui sì che vive nascosto, a lui lo cercano, eccome, a me invece no, a me non mi cerca più nessuno. Anche Ottone lo cercano, e forse anche più di Franco.

Franco ha la sua solita faccia dalla quale non trapela nulla, ma se è qua deve esserci un buon motivo, e di solito i buoni motivi non sono per niente buone cose, di solito sono guai, di solito sono cose che non vorrei sentire.

Franco si siede sulla poltrona blu di fronte alla mia, si guarda attorno con fare sospettoso, controlla i pochi avventori del caffé, li studia, li disseziona, li cataloga, li incasella, gli dà un nome un cognome e un codice fiscale. Franco, lui sì che è ancora un vero terrorista, lui non è mai stato “ex”.

“Prendi qualcosa?” domando cauto.

“Un caffé” e lo dice come se fossi io il cameriere che gli porterà la consumazione richiesta.

Mi alzo, raggiungo il bancone del bar e ordino un caffé al tipo dai capelli arancione e le abbondanti lentiggini dello stesso spettacolare colore.

Guardo Franco dal bancone e lui sta ancora studiando i clienti del caffé, sta valutando eventuali pericoli, sospettoso come l’ex terrorista, volente o nolente, che è. Che siamo. Che siamo, anche se tendo a dimenticarlo qui a Parigi. Tendo a cancellarlo il mio passato.

Mi risiedo sulla mia poltrona rossa. Sospiro e aspetto.

Franco finalmente mi pianta gli occhi in faccia, come si pianta un coltello in profondità nel cuore, e dice:

“Ottone è sparito.”

“Come sparito” dico abbassando il mio tono di voce per accordarlo al suo che di colpo si è abbassato di un paio di ottave.

“Non è più da nessuna parte” afferma.

“Ma io l’ho visto tre giorni fa” dico come se questo potesse sfatare il fatto che lui sia sparito, come se tre giorni fa fosse come tre minuti fa, tre secondi fa.

“Infatti è sparito da tre giorni” afferma ancora scandendo le parole lentamente, come se io altrimenti non capissi.

“Ma potrebbe essere ovunque, che so, da una donna, o qualcosa del genere” propongo.

“No, noi ci sentiamo tutti i giorni, sempre e comunque, è una cosa dalla quale non si può prescindere, perché” e qui abbassa ancora di più il tono di voce e aggiunge “forse tu non lo sai, ma dall’Italia stanno facendo grosse pressioni per ritrovarlo, stanno muovendo mari e monti, servizi segreti e terroristi infami…forse tu non lo sai ma non siamo qui in vacanza.”

“Cosa stai tentando di dire” domando.

“Che probabilmente l’hanno arrestato, in un modo o nell’altro, e se è così dobbiamo stare tutti attenti” dice in un sussurro ormai, come se non parlasse neanche più con me. E forse è così.

Suona il telefono.

Io sono sul terrazzino che guarda i tetti grigi di Parigi a fumare seduto sopra una sedia di ferro battuto nera con un gomito appoggiato al piano di un tavolino di ferro battuto nero bucherellato, come la sedia.

Gatto, il gatto che vive sul tetto mi osserva pigro, con gli occhi gialli che si chiudono lentamente e che appena si chiudono del tutto lui riapre prontamente, come per non perdermi di vista.

Mi alzo di scatto e Gatto spalanca gli occhi, quasi infastidito, ma anche incuriosito, sempre pronto a tenermi d’occhio.

Alzo la cornetta.

“Accendi la televisione” dice senza preamboli la voce autoritaria, da uomo di comando, di Franco.

Prendo il cordless e col telecomando accendo la televisione.

“Che canale?” chiedo.

“RaiNews 24” dice.

Trovo il canale.

Smetto per un attimo di respirare e mi sembra di trasformarmi in una pesante e ingombrante e inutile pietra.

La faccia di Ottone di venti anni fa mi guarda dallo schermo.

“Che succede?” dico nel telefono con la paura di saperlo bene quello che sta succedendo.

“Zitto un attimo” mi intima Franco.

La fotografia di Ottone adesso è in secondo piano e una giornalista sta dicendo che il pericoloso e irriducibile terrorista italiano evaso dal carcere di Alba è stato arrestato a Ventimiglia mentre tentava di passare il confine francese. Sta dicendo “Il ministro degli interni si congratula con le forze dell’ordine per il loro ottimo lavoro”, sta dicendo “Finalmente un pericoloso terrorista, mai pentito, è stato assicurato alla giustizia”, sta dicendo “Un rappresentante della Lega chiede l’introduzione della pena di morte in Italia”.

“Ma che ci faceva Ottone a Ventimiglia?” domando alla cornetta del telefono.

“Non lo so, ma mi sa tanto di montatura, c’è qualcosa che non torna” dice enigmatico Franco.

“In che senso?” domando.

“Non lo so, ma appena so qualcosa di più, appena ho informazioni più sicure ti chiamo” dice e mette fine alla telefonata, senza un ciao, un stammi bene o un vaffanculo.

Dal televisore è sparita la faccia di un giovane Ottone ed è apparsa quella di Berlusconi.

Faccio un giro di canali e la faccia di Ottone riappare sul canale, in francese, EuroNews. Una voce fuori campo sta dicendo “…una sanguinosa evasione dal carcere di Alba…”.

C’ero anch’io in quell’evasione “sanguinosa”, me la ricordo bene. Me la ricordo molto bene.

Attraverso Place de la Bastille, mi infilo in una via a sinistra e seguendo le indicazioni di Virginie arrivo di fronte a un ristorante che si chiama “Yellow Magic Sushi”.

Entro.

Il locale è giapponese minimal-chic con tavoli rasoterra dove ci si deve togliere le scarpe per mangiare e altri ad altezza normale.

Quasi tutti i tavoli sono occupati e la musica elettronica della Yellow Magic Orchestra naviga leggera nell’aria.

Virginie è al bancone dove un cuoco giapponese seziona pesce con la precisione di un chirurgo e arrotola palle di riso alla velocità della luce e un altro, che è tale e quale a Riuychy Sakamoto, parla con lei che sta sorseggiando vino bianco da un lungo calice.

Virginie mi vede, mi sorride e mi fa segno di raggiungerla.

Mi presenta il cuoco giapponese uguale a Sakamoto: Yukio, o qualcosa del genere.

Virginie è più bella e più giovane di come me la ricordassi.

Mi sento di colpo  vecchio e fuori posto.

Yukio qualcosa mi passa un calice di vino bianco e ci fa accomodare ad un tavolo alto, per fortuna, perché ho paura di avere un buco in una calza.

Virginie studia il menù, e anche io lo studio ma ci capisco proprio poco, e mi applico ancora meno. Penso a Ottone, come faccio a non pensarci.

Alzo gli occhi dal menù e la guardo smarrito.

“Faccio io?” chiede.

Annuisco.

Mi sento un po’ a disagio, è tanto che non esco con una ragazza e poi non riesco a non continuare a pensare a Ottone, di nuovo in carcere in Italia.

Arriva una bottiglia di Sancerre.

Quando la bottiglia di ottimo vino bianco arriva a metà, finalmente, ci siamo un po’ sciolti. Specialmente io.

Virginie mi dice di essere una scrittrice e una traduttrice.

“E cosa scrivi?” domando, come penso domandino tutti quelli ai quali una persona dica di essere uno scrittore.

“Sto scrivendo un romanzo e ho appena tradotto un libro di uno scrittore italiano, magari lo conosci, si chiama Tommaso Ferro” dice.

“No, non lo conosco” dico.

“Magari dopo puoi accompagnarmi alla libreria italiana “Tour de Babel” dove l’autore firmerà copie del suo romanzo” dice Virginie.

“Certo, perché no” dico e sorrido e chiedo, anche se non so bene perché, dato che lo so benissimo dov’è la libreria “E dov’è la libreria?”

“Qui dietro, nel Marais” dice e sorride lei.

“E si guadagna bene a scrivere romanzi e a tradurre?” domando.

“No, infatti, come hai notato nel giardino di Place des Vosges, faccio anche la baby-sitter” afferma serena.

Arriva Yukio, che Virginie mi ha detto essere un suo buon amico, con un enorme piatto di sushi e sashimi.

“E le posate?” chiedo.

“Quelle sono le posate” dice Virginie indicandomi due bacchette di legno chiaro con iscrizioni penso in giapponese.

Osservo le bacchette di legno come se fossero due serpenti velenosi, e quindi non idonee a essere usate come forchetta e coltello.

Virginie ride e mi spiega con calma come usarle.

“E tu cosa fai qui a Parigi?” mi domanda Virginie.

“Niente” rispondo tentando di acchiappare un pezzo di tonno crudo.

“Sei in vacanza?” domanda.

“No” rispondo inseguendo il mio tonno con le bacchette assolutamente inadeguate al compito.

“Ma che lavoro fai?” domanda aggrottando la fronte e sorridendo al mio tentativo di mangiare il tonno crudo.

“Nessuno” affermo infilzando il sashimi di tonno con una bacchetta, usandola come una fiocina, un arpione, certo non come farebbe un vero giapponese.

“Non lavori” conclude.

“E’ così” concedo.

“Sei in pensione” azzarda.

“Pensi che sia così vecchio?” domando guardandola falsamente indignato.

“No no, ma ho sentito dire che in Italia si va in pensione anche molto giovani” argomenta.

“No, non sono in pensione e a dirla tutta non ho mai lavorato in vita mia” affermo sorridendo pacifico.

“Mai?” domanda incredula.

 Esatto…mai lavorato” annuisco, ma penso che ho fatto il terrorista, ma quello forse non vale, non era mica un lavoro.

“Sei ricco o cosa?” chiede.

“Diciamo che mio padre e mio nonno hanno lavorato anche per me” considero.

“Ma qui a Parigi cosa fai?” si informa.

“Leggo la “Recherche” di Marcel Proust, passeggio, visito cimiteri, faccio l’orco nei parchi per bambini…cose così” dico.

“Sembra bello” sorride lei.

“Lo è” confermo io.

“Specialmente fare l’orco immagino” sorride ancora lei.

“Specialmente quello” concedo io divertito.

 

“Fammi fare un tiro” dice Virginie raggiungendomi fuori della libreria.

Le passo la sigaretta quasi finita.

“Ma è senza filtro” afferma Virginie quasi schifata.

“Già, me l’hanno data…io le ho finite” dico guardando a destra rue de Sicilie con scarsa presenza umana.

Virginie fa per ripassarmi la sigaretta ma le dico con un  profondo sospiro:

“No, finiscila pure.”

“Tutto bene?” mi chiede.

“Sì, cioè no…sono preoccupato per un amico…” dico pensando a Ottone, come faccio a non pensare a Ottone? Non riesco a non pensare a Ottone.

“Posso fare qualcosa?” domanda.

“No, ma grazie lo stesso per l’interessamento” affermo tentando un sorriso, che però deve essermi venuto veramente male vista la faccia di Virginie.

“Virginie…Viriginie…ciao…come al solito sono in ritardo” dice una ragazza avvicinandosi di corsa su scarpe dai pericolosi tacchi altissimi.

“Amélie…ciao” risponde Virginie illuminandosi.

“Lui è un mio amico” dice Virginie puntandomi un dito contro.

“Amélie” dice Amélie a mi dà una mano piccola e morbida.

“E’ la fidanzata di Yukio” mi dice Virginie.

La guardo interrogativo.

“Yukio, il cuoco del ristorante giapponese” dice Virginie col tono di dire ma come fai a non ricordartelo.

Annuisco e sorrido.

Virginie prende sotto braccio Amélie e entrano nella libreria lasciandomi lì senza sigarette.

Passa Simone, la professoressa mia vicina di casa che piace a Ottone. Mi fa un segno di saluto con la mano, che io ricambio sorridendo, il saluto che ci scambiamo di solito  nel nostro caffé che è qui dietro l’angolo, e entra in libreria.

Quello che mi chiedo ora è ce la farà Ottone a sopravvivere nuovamente in un carcere?

Ce la farà, ancora, Ottone a rimanere muto?

 

Poso la tazza bianca piena a metà di tè indiano molto speziato e mi lascio avvolgere dalla poltrona rossa del mio caffé nel Marais.

Franco si abbassa verso di me, guarda a destra e a sinistra, ma il caffé è deserto. Dice:

“Avevo ragione io.”

Lo guardo interrogativo.

“Ottone” e qui abbassa la voce in un sussurro “è stato rapito qui a Parigi dai servizi segreti italiani.”

“Cosa?” domando alzando la voce.

Franco quasi si spaventa a sentire il mio tono di voce, fa la faccia come a dire calmati. Dice:

“In questo modo hanno risolto il problema dell’estradizione, delle richieste formali al governo francese, hanno risolto il problema della proverbiale clemenza della Francia nei nostri confronti.”

“Come” chiedo.

“Non ho ancora i dettagli ma è stato un rapimento in piena regola” dice.

Non dico niente, osservo il mia tazza bianca come se servisse a qualcosa, come se lì ci fosse una qualche informazione, o verità, o qualcosa del genere.

“Ho sentito Fabio, a Torino” sta dicendo Franco.

La parola Fabio aizza la mia attenzione. Mi manca Fabio. E’ tanto che non ci vediamo.

“Non so sei hai letto i giornali e seguito i telegiornali ma una immagine di Ottone com’è oggi non si è mai vista…e beh, è perché, e me l’ha detto Fabio, quindi fonte sicura, sicurissima, l’hanno riempito di botte, praticamente l’hanno torturato…hai capito, l’hanno torturato…” dice Franco.

Sospiro dal naso come un toro.

Mi tocco la gola, come se lì ci fosse qualcosa di fastidioso, di doloroso, un tumore che cresce a vista d’occhio, alimentato dalle parole di Franco.

“Vogliono i nomi, i nostri nomi, i nomi di chi l’ha aiutato ad evadere dal carcere di Alba, vogliono tutti i nomi, vogliono che parli, che si pieghi, che la smetta con questa storia dell’irriducibile, vogliono che si penta, che racconti anche quello che già sanno” dice Franco alzando di un ottava il suo basso tono di voce.

“Non parlerà” dico ma la mia convinzione vacilla, traballa.

“Non lo so, l’hai visto anche tu Ottone qui a Parigi…era stanco, giustamente, dopo venti anni di carcere è comprensibile, ma era stanco” dice Franco guardando anche lui la mia tazza bianca.

“Non parlerà” ma mentre lo dico ho paura di aver ragione, e ho paura delle conseguenze.

“Forse, ma io domani parto lo stesso per il Messico” afferma sicuro Franco.

Annuisco e sorseggio il mio tè ormai tiepido.

“Tu puoi rimanere…a te non ti cerca nessuno…nessuno ha mai saputo niente di te…grazie a Ottone…e Ottone il tuo nome non lo farebbe mai…piuttosto morirebbe…” dice Franco.

Ed è questo che mi spaventa.