Molto annunciato, quasi fosse il film evento di fine anno, magari a voler confermare che dopo Il Divo e Gomorra il cinema italiano ha ancora un futuro e questo futuro è roseo. Ora difficile dire ciò che sarà del cinema italiano dopo i film di Garrone e Sorrentino, ma sta il fatto che Come Dio comanda di Gabriele Salvatores è molto deludente, forse il film d’autore più brutto dell’anno.
Non che ci fosse da aspettarsi troppo dalla riduzione di un tomo di 500 pagine, numero che imponeva già di suo una drastica riduzione. Però taglia, scorcia, sfronda, l’impressione è quella di un mezzo massacro di un libro non capolavoro ma comunque dignitoso.
A rimanere una serie di quadri slegati tra loro, un accumulo di sketch più che di scene.
Il convento passa il seguente materiale: Cristiano (Alvaro Caleca), quattordicenne pulcino bagnato. Rino (Filippo Timi), nazista un po’ macchietta: croce celtica d’ordinanza, sguardo truce, tirata di prammatica contro gli extracomunitari, nonché, particolare non trascurabile, padre di Cristiano. Parallelamente alla diade padre-figlio che si scontra e si incontra, scorrono le gesta di Quattroformaggi (Elio Germano), lo scemo del paese, che oltre ad addobbare di continuo un presepe che definire post-moderno è d’obbligo, scambia la finzione (un VHS porno…) con la realtà fino alla tragedia.
Il problema, abbastanza frequente nel cinema di Salvatores, è quello di arrivare sempre a ridosso del punto di non ritorno, per poi fare precipitosamente marcia indietro. Prima si annunciano tuoni e fulmini, poi si silenziano i primi e si spengono i secondi. Tra momenti di stanca e brusche interruzioni quando la scena avrebbe ancora molto da dire, sembra a tratti di vedere aggirarsi sullo schermo il fantasma di Accattone (aggiornato ad oggi…), ma forse è solo un altro abbaglio…
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