Due decani della scrittura e del noir – che detestano essere definiti tali ma non possono indietreggiare quando così li si chiama – si sono trovati seduti fianco a fianco ad una delle presentazioni di Via Crudes. Uno è l’autore stesso, Loriano Macchiavelli, l’altro è Luigi Bernardi, direttore della collana Babele Suite di Perdisa, da cui l’opera è stata edita. Bernardi ha subito anticipato, alla sua maniera ironica, che i gialli di Antonio Sarti, questa volta, non c’entrano nulla: come recita il sottotitolo, Via Crudes è un “Romanzo impossibile in tredici stazioni” cui fa sosta il protagonista, uomo-pellegrino che sa ascoltare i vecchi, gli avvertimenti e sa guardare il mondo oltre il suo primo, evanescente velo (talento, quest’ultimo, che forse ha davvero in comune col sergente Sarti).
I luoghi in cui si dipana la narrazione sono in parte quelli a noi conosciuti dell’Appennino, in parte quelli evocati dalle favole: boschi, prigioni, castelli, regni possibili. Lì si incontrano persone di tutti i giorni che di tutti i giorni, però, hanno conservato solo quelli più emblematici: anziani, studenti, ragazze, professori. Accanto ad essi, una schiera di creature dal sapore fiabesco: cavalli che indovinano peccati e virtù, servi, mostri con mani enormi e con occhi così piccoli che forse non esistono, ballerine che in realtà sono contesse destinate a matrimoni infelici ma a grandi amori.
Una miniepopea o poema essenziale che stravolge il quotidiano per ridipingerlo di leggendario e dissacrarlo con frasi sagge e lapidarie. Ma è una sfasatura apparente: in 120 pagine la metafora della vita riluce ovunque giunta a quella della morte. La locanda, la torre, la bottega dello stregone, il giardino dei sogni altro non sono che i luoghi/non-luoghi dell’esistenza e delle contraddizioni in cui anche noi, oggi, restiamo intrappolati. Un’esistenza cui, ad ogni cosa, inspiegabilmente, corrisponde il suo contrario. L’indecifrabile si aggira tra cespugli, lecci e querceti, si annida in una tomba che non è tale o in una fonte ingannevole. La gente brama, mente e uccide come oggi. Vuole ricchezza e giovinezza, i potenti condannano i deboli e ne usurpano le facoltà, e intanto s’alzano le nebbie sfumando di cinerino il panorama montano. Non è chiaroveggenza quella che rende attuali e scottanti le parole del più grande poeta secentesco e che l’autore trascrive come un monito: “Viviamo in un mondo e in un tempo dove giudice, delinquente e carnefice sono la stessa persona. Non c’è più speranza di giustizia... Siamo arrivati al momento del coraggio: il coraggio di non accettare più le norme, la consuetudine, le leggi di secoli.”
Si è parlato di tempo circolare - o anche di favola nera fuori dal tempo - perché usanze medievali, riti pagani e tradizioni paesane trascorrono in una compatibilità tanto lontana quanto palpabile. Scorrendo le pagine, il tempo – o l’uso letterario che Macchiavelli ne fa – imbroglia piacevolmente il lettore, in un susseguirsi vertiginoso e in un rimbalzare costante dal presente all’eterno. Le intarsiature medievali non ingannino: c’è il cavallo di Matilde di Canossa, ci sono teste mozzate da società in cui regna la faida, ci sono riti pagani. Ma si trovano anche inaspettati rimandi all’età moderna e all’oggi: lapidi riscritte nel XVII secolo, citazioni shakespeariane, riferimenti ai bombardamenti del 1943, un ricordo a Giulietta Masina e a Federico Fellini. Un incantesimo della clessidra? La finzione narrativa rende possibile anche questa scissione dalla dimensione temporale, se la magia è compiuta da mani esperte. La stessa magia che ha costellato questa Via Crucis di reminescenze bibliche ed alchemiche, infondendo così, a un viaggio paradigmatico, la quintessenza del sacro e del profano.
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