I giorni del mostro

 

C’è una forte insoddisfazione nell’aria, non sembra anche a te?

Piove da giorni, il mio giardino è una palude preistorica oppressa da un cielo petrolio, la terra ruscella verso il patio della casa, c’è un vento terribile, e io vorrei sedere su un dondolo e suonare un’armonica a bocca.

Il lungo sacco di plastica, accanto alla siepe d’alloro, è d’una pesantezza insostenibile. Sta affondando nel terreno, la pioggia greve che inzuppa il mondo vi batte con un ritmo sordo e duro, che ricorda una risata sommessa. L’acqua precipita dal cielo furiosamente, e spinge il sacco in cui ho avvolto mia madre nel ventre umido del giardino.

Guardandola mentre viene ingoiata dal terreno, dimentico che sono stato io a ridurla così.

C’è una forte insoddisfazione nell’aria, una grande oppressione, ma non devi pensare che dipenda dal cadavere laggiù nella pioggia. Anzi, sono stati proprio quest’atmosfera di piombo, questo vento senza posa e questa pioggia infernale a spingermi ad ucciderla e ora ad aspettare, senza fretta, che l’acqua le scavi una fossa accanto all’alloro.

Sono una persona fortunata. Dovrei dire che sono una persona felice.

Non mi manca nulla, la mia vita è una macchina perfetta, ben oleata, con una sua etica e una sua estetica (quest’ultima, in qualche modo oscuro, getta luce sulla prima). Eppure sta piovendo a dirotto, il vento è un rasoio impietoso, e mia madre sta per essere mangiata dalla balena del mondo.

Ho cominciato con lei solo per pigrizia, per comodità. Per un po’, dopo averla uccisa, sono stato bene, forse sono stato felice. Ma poi il coito del nulla è tornato, e il pallore della mia vita irreale era di nuovo qui a cancellarmi.

È stato per questo che ho incontrato la tipa della chat. Lei aveva solo voglia di scopare, e in fondo anch’io. D’altra parte, sai dirmi che differenza c’è tra farsi fare un pompino e uccidere?

Dopo averle sborrato in bocca, l’ho abbracciata, aveva lo sperma che le colava dal viso, ho sentito l’inutilità di quello che avevamo fatto, ho pensato a mia madre nel giardino, alla pioggia, e così le ho infilato il coltello nella pancia, è stato come scoparla ancora, ho sentito la sua forza uscire dall’oceano dell’energia, proprio sotto l’ombelico, lei si è accasciata su di me, aveva uno sguardo da bambina impaurita ma non è riuscita a farmi piangere, è solo scivolata nel sangue sul parquet del suo appartamento, dove probabilmente si trova ancora.

Mia madre, l’ho strangolata: non avrei potuto toglierle la vita altrimenti, ed è stato bellissimo. Con la ragazza, però, ho usato il coltello, gli amanti si uccidono così, Giulietta e Romeo, Piramo e Tisbe, tutti morti per mano d’una lama.

Stamattina sul vasto piazzale dell’ex colonia sul mare quattro bambini giocavano attorno a una grande pozzanghera. Ho immaginato i loro nomi, brevi e sonori come trilli di telefono, Pim Tim Jim Razim, erano avvolti in mantelline colorate e guardavano veleggiare barchette di carta sulla superficie battuta dal vento della pozza.

Forse stasera prenderò uno di loro, quello che immagino si chiami Razim, e lo porterò nella pineta di Castelfusano, vicino ai resti della villa romana. La pioggia canterà per noi fra i cespugli, salirà dal suolo un profondo odore di terra, ci sarà un incessante cadere di foglie, i rami degli alberi scricchioleranno sinistramente, come forche indurite dall’acqua, il sottobosco sarà tutto gemiti e stridori, lo sentiremo sussurrare, io porterò Razim nel profondo, in una radura dove vengono invocati i demoni della notte, e gl’insegnerò a vedere le paure, a capirle e a sorriderne.

Forse un giorno la gente si chiederà perché, mi darà del mostro, cercherà di non capirmi.

Il giardino ha quasi finito d’inghiottire mia madre. Fra poco uscirò di casa, avvolto in un pastrano nero, come gli assassini del cinema, e andrò a giocare coi bambini attorno alla pozzanghera. Costruirò una barchetta di carta e la farò navigare insieme alle loro, immaginando viaggi su oceani in tempesta.

Dio, erano anni che non mi sentivo così.