Una ormai consolidata tradizione, frutto delle ricerche compiute nel corso di questi ultimi decenni, ha collocato le origini del poliziesco italiano nel 1929, anno in cui Mondadori apriva l’ormai celebre collana dei “Libri Gialli”. Seguendo il proprio istinto imprenditoriale e soprattutto tastando con abilità la situazione del mercato, l’editore milanese decise di lanciare una collana interamente dedicata alla letteratura poliziesca. Un’operazione molto scaltra, che non tardò a dare i suoi frutti, dal momento che i gialli andarono letteralmente a ruba, tanto da divenire, nel breve volgere di pochi anni, il prodotto letterario di maggiore consumo all’interno del panorama nazionale.
Ma l’operazione di casa Mondadori deve essere collocata all’interno di un vasto fenomeno - definito già all’epoca come “fenomeno giallo” - capace di coinvolgere espressioni artistiche differenti, che andavano dalla letteratura al cinema, dalla radiofonia al teatro. Insomma, un vero e proprio fatto di costume, che allora andò a caratterizzare un’epoca e che oggi, a oltre settant’anni di distanza, documenta la storia del pubblico italiano e soprattutto la rapida evoluzione dei suoi gusti.
La storia del giallo italiano, quindi, non è fatta solamente dai romanzi editi da Mondadori o dai racconti apparsi un po’ dovunque nel corso degli anni Trenta. È costituita anche da numerosi film polizieschi; è fatta dagli innumerevoli radiodrammi di argomento “giallo” trasmessi all’epoca con regolarità. Ma è fatta, ancor prima di tutto ciò, da una cospicua quantità di commedie poliziesche presentate sui palcoscenici italiani per tutto il corso degli anni Trenta. Fu, questo teatrale, un fenomeno di vasta portata, capace di coinvolgere un’ampia fetta di pubblico e in grado di mettere in movimento un’imponente macchina organizzativa, con tanto di compagnie specializzate, sale di riferimento, autori esperti. Insomma, un vero e proprio circuito che andò a costituire il primo importante nucleo di quello che venne in seguito definito come “teatro commerciale”.
Gli studi che ho avuto modo di condurre in questi ultimi anni sulla commedia poliziesca italiana, hanno riservato non poche sorprese, prima fra tutte la possibilità di retrodatare - e, quindi, in qualche modo, di riscrivere - l’origine del giallo “made in Italy”. Noi tutti sappiano che la nascita del poliziesco italiano è sempre stata collocata nel 1931 quando, con il numero 29 della collana Mondadori, uscì il primo romanzo giallo di Alessandro Varaldo, Il sette bello. In verità lo stesso Varaldo, il 15 marzo del 1931 aveva fatto rappresentare la commedia di ambientazione gialla Il tappeto verde, la cui composizione si deve quindi supporre, per lo meno, contemporanea alla stesura del romanzo. Ma c’è di più. Il 21 gennaio 1930, al Teatro Orfeo di Roma, Guglielmo Giannini – di cui dirò più avanti – fece rappresentare il suo primo dramma poliziesco dal titolo Grattacieli. Procedendo a ritroso, si deve segnalare la trasmissione, da parte dell’EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche), il 7 novembre 1929, di L’anello di Teodosio di Luigi Chiarelli, trenta fonoquadri in cui avventura, poliziesco e commedia brillante sono abilmente mescolati tra loro.
Ma la nostra corsa verso il passato non si ferma neppure qui. L’11 ottobre 1928, a Roma, andò in scena La casa del parco, un formidabile dramma poliziesco carico di suspense scritto da Giuseppe Romualdi, che alternava la professione di avvocato con quella di commediografo. E, infine, facendo un ultimo passo indietro, il 18 gennaio 1927 l’URI (Unione Radiofonica Italiana), trasmise un radiodramma dalle tinte inequivocabilmente gialle: Venerdì 13 di Gigi Michelotti con il quale, tra l’altro, si inaugura la storia del teatro radiofonico italiano.
A questo punto la nascita del poliziesco “made in Italy” deve essere anticipata dal 1931 al 1927, qualora non si voglia prendere in considerazione ancora un’altra commedia che, tuttavia, cito solo quale dato di cronaca, quindi senza rigore scientifico, non avendone, al momento, ritrovato il testo. Ho infatti avuto notizia che già nel 1909 venne rappresentata una commedia di Franco Bello dal titolo La donna poliziotto. Se tale lavoro drammatico appartenesse al genere poliziesco, non solo la nascita del giallo italiano andrebbe anticipata di ben ventidue anni sulla data canonica, ma al contempo avremmo anche il primo esempio italiano di detective donna.
Quale posto occupava il dramma poliziesco nel teatro italiano degli anni Trenta? Se, come è ben noto, di quel periodo si celebra l’opera di autori come Pirandello, Rosso di San Secondo, Chiarelli o D’Annunzio, è altrettanto vero che nessuno di questi autori conobbe all’epoca la fama raggiunta dalla commedia poliziesca. Un’indagine compiuta sui dati numerici relativi lo sbigliettamento, dimostra che il genere maggiormente visto dal pubblico italiano era il teatro del varietà, cui facevano seguito la commedia poliziesca e la commedia sentimentale-brillante, nota anche come “teatro dei telefoni bianchi”. Solamente dopo, si inseriscono Pirandello, Rosso di San Secondo, D’Annunzio, Chiarelli e tutti gli altri autori che oggi vengono giustamente ricordati come i “grandi” della drammaturgia italiana del Novecento.
La realtà della scena italiana degli anni Trenta, dunque, era proprio questa: gli autori del teatro “colto” non erano più in grado di riempire le sale, e il pubblico dimostrava chiaramente di gradire spettacoli di minore impegno, commedie di evasione, capaci soprattutto di divertire e di distrarre. A teatro, come nella letteratura, si stava quindi verificando una profonda trasformazione, frutto di un graduale ampliamento del pubblico e soprattutto conseguenza dell’ingresso, all’interno delle platee, di nuovi ceti sociali che rivendicavano il diritto di un teatro adeguato alle loro capacità culturali. Dunque non più un teatro d’èlite, ma un teatro che stava avviandosi, seppure lentamente, a divenire un fenomeno di massa.
Il problema del teatro di massa fu uno degli argomenti più a lungo dibattuti nel corso del ventennio fascista. Mussolini, per primo, sollevò il problema, in occasione del discorso tenuto al Teatro Argentina di Roma nell’aprile del 1933, per il cinquantesimo anniversario della SIAE. In quell’occasione il duce pose le basi per una nuova forma di espressione artistica che doveva farsi interprete del sentimento del popolo italiano. Il suo discorso, apertamente polemico contro la vecchia concezione di un teatro d’élite, si rivolgeva fondamentalmente agli autori drammatici, ai quali veniva affidato il compito di farsi interpreti della nuova sensibilità fascista. Il teatro quindi diveniva, nei programmi di Mussolini, un momento privilegiato per l’educazione delle masse, un luogo deputato ai grandi ritrovi collettivi, aperto a tutti, fruibile a prezzi contenuti.
Nello stesso discorso, Mussolini enunciava un altro postulato fondamentale del suo pensiero: «Bisogna preparare il teatro di masse, il teatro che possa contenere ventimila persone». [1] Tale frase fu tuttavia oggetto di gravi fraintendimenti. Se è vero che molti identificarono il concetto di “teatro fascista” con quello di “teatro di massa”, altrettanti finirono per fraintendere il concetto stesso di “massa”, riferendolo agli attori e alla sfarzosità degli allestimenti, piuttosto che al pubblico.
La realtà dei fatti storici dimostra che le premesse del discorso di Mussolini non poterono essere rispettate. Se da un lato fu impossibile realizzare spettacoli teatrali di fronte platee di ventimila persone, dall’altro mancarono autori capaci di realizzare un teatro dall’autentica forza educativa. I generi più commerciali rimasero quello dei “telefoni bianchi” e quello poliziesco, mentre fu al cinema che spettò il compito di sostenere quell’aspetto educativo che il duce aveva affidato al teatro. La produzione di film assai popolari e destinati a un pubblico vasto, le pellicole celebrative del regime o i film storici, sono la dimostrazione più eloquente di questa realtà. E d’altra parte non è un caso che, constatato il fallimento del teatro, il regime fascista decidesse piuttosto di sostenere e potenziare il cinema, con la fondazione, nel 1937, di Cinecittà.
È noto che il romanzo poliziesco, nato e sviluppatosi in terra anglosassone, giunse in Italia quale genere di importazione. L’obbligo di sottostare a una legge emanata dal regime fascista, che riservava agli autori italiani almeno il venti per cento dei titoli di ciascuna collana narrativa, aveva costretto Mondadori a creare dal nulla un gruppo di giallisti italiani. Per riprendere la definizione di Elvio Guagnini, si trattò quindi di un vero e proprio “caso da laboratorio”, di un genere nato artificialmente e altrettanto artificialmente concluso quando, nel 1944, il fascismo chiuse d’autorità tutte le collane poliziesche.
Anche il teatro poliziesco è un genere d’importazione, ma la nascita di commediografi italiani specializzati nel giallo non fu artificiale o costretta da una legge fascista. Esso nacque spontaneamente, sia quale risposta a una precisa domanda del pubblico, sia quale conseguenza delle successive trasformazioni di un medesimo modello drammaturgico. Non è questo il luogo ove tracciare una storia delle origini del teatro poliziesco. Basti solo ricordare che i modelli più lontani possono essere ritrovati nel genere “melodrama” fiorito agli inizi del Settecento in Inghilterra e nel corrispondente genere “mélodrame” fiorito in Francia tra fine Settecento e prima metà dell’Ottocento. Finalità di questi spettacoli era quella di creare nello spettatore forti emozioni, narrando vicende dai foschi contorni, spesso pervase da violenza e sangue. Eroine innocenti, uomini malvagi, il brivido dell’ultimo momento, lo sfarzo della messinscena, erano alcuni tra gli elementi fondamentali di questi spettacoli.
Dal modello drammaturgico del “mélodrame” nasce, alla fine dell’Ottocento, il genere del “grand-guignol”. Conosciuto anche come “teatro del terrore”, esso si basava sul concetto naturalista della “tranche de vie”, e portava sulla scena un repertorio di brutalità che spaziavano attraverso delitti, interrogatori, torture, sadismo, medicina legale. Protagonisti erano criminali d’ogni sorta e poliziotti dai modi burberi. Per farsi un’idea di tali spettacoli, basti citare alcuni titoli di André de Lorde, il più celebre drammaturgo del grand-guignol: L’ultima tortura (1904), Il laboratorio delle allucinazioni (1916), Il castello della morte lenta (1916), La camera ardente (1928).
Il grand-guignol ebbe un notevole successo anche in Italia dove, tra gli anni Dieci e gli anni Venti, trovò numerosi interpreti che si specializzarono nella rappresentazione di questo genere. Non desta quindi meraviglia che, alla fine degli anni Venti, quando il grand-guignol venne soppiantato dal suo più diretto successore, il poliziesco, i medesimi interpreti dell’uno comparvero anche sul palcoscenico dell’altro.
A partire dal 1930, il fenomeno giallo inizia a coinvolgere profondamente il pubblico italiano, sia attraverso il romanzo, sia attraverso la rappresentazione teatrale. Non è quindi un caso che dai primi anni Trenta il numero di commediografi gialli italiani inizi ad aumentare progressivamente, così come il numero di titoli appartenenti al genere subisca un’improvvisa moltiplicazione. Il fatto può essere agevolmente spiegato attraverso le leggi della domanda e dell’offerta. È chiaro che a una così ingente produzione gialla rispondeva a un’altrettanto ingente domanda da parte della platea. La commedia poliziesca, evidentemente, era l’unica in grado di appagare le attese di un pubblico vasto ed eterogeneo per cultura, interessi e appartenenza sociale. Tale appagamento faceva leva su alcuni bisogni fondamentali della società e sapeva toccare le corde più riposte di un comune sentire. D’altra parte, è innegabile che il poliziesco, nonostante gli elementi inquietanti dei quali era intriso, costituiva per lo spettatore, al pari di altri generi di consumo, un momento di svago. Ma l’arma vincente era costituita da una particolare forma di coinvolgimento, raffinato e sottile, che solo il genere poliziesco era in grado di offrire: quello intellettuale. In tale senso, il successo della commedia gialla va ricercato proprio nella capacità di aprire una sfida tra il palcoscenico e la platea e di coinvolgere attivamente lo spettatore nella ricerca del colpevole.
Nel comporre i loro drammi, gli autori italiani presero a modello il teatro giallo anglo-americano e soprattutto la formula classica del romanzo poliziesco di stampo inglese, interamente ambientato all’interno di un medesimo spazio chiuso. Questa scelta, per molti versi obbligata dalle stesse caratteristiche della rappresentazione teatrale, tuttavia poteva fare leva su alcuni elementi particolarmente affascinanti, come la camera chiusa, il numero limitato dei personaggi, il fatto che tutto avviene sotto l’occhio vigile dello spettatore. Allo stesso modo, la struttura drammaturgica non si allontana da quella tradizionale che pone la tripartizione della materia in delitto, detection e risoluzione del mistero con l’identificazione del colpevole. Queste tre parti canoniche corrispondono generalmente ai tre atti nei quali si suddivide il dramma, sebbene non manchino le eccezioni, laddove la parte centrale - la detection - tende a dilatarsi e a occupare più atti.
La peculiarità del dramma giallo ha indotto i commediografi italiani a rispettare in modo pressoché ferreo le famose regole delle unità. Dell’unità di spazio si è già detto. L’unità di tempo è dettata dalla rapidità con la quale si devono svolgere le indagini, pena il rischio di una fuga del colpevole. Quasi tutti i drammi polizieschi, quindi, si svolgono nel breve spazio di alcune ore. L’unità d’azione, infine, è garantita dalla necessità di rendere più lineare il dramma. In questo caso va detto che i commediografi più abili seppero fare uso di un numero assai limitato di personaggi, rendendo quindi ancora più affascinante il “rompicapo” poliziesco che si dipana entro una cerchia molto limitata di indiziati.
Elemento fondamentale dello spettacolo poliziesco è la suspense, ossia quello stato di sospensione e incertezza nel quale viene tenuto lo spettatore di fronte una scena altamente drammatica di cui non si riesce a prevedere la conclusione. Due sono le forme di suspense conosciute: Whodonnit?, “Chi è stato?”, quando lo spettatore viene posto di fronte un enigma che viene risolto durante la rappresentazione; e Hedonnit, “È stato lui”, quando lo spettatore conosce sin dall’inizio l’identità dell’assassino, come accade nel celebre film Delitto perfetto che Alfred Hitchcock trasse dall’omonima commedia di Frederick Knott. Di queste due forme i commediografi italiani preferirono esclusivamente la prima, cui alternarono spesso il “colpo di scena”, ossia la sorpresa improvvisa che pone lo spettatore di fronte un repentino cambiamento di situazione o a un evento del tutto imprevedibile.
Vasta la schiera di personaggi inventati dai drammaturghi italiani, sebbene possano essere raggruppati in alcune categorie standard: l’ispettore, l’assassino, i sospettati, la vittima. Come la narrativa, anche il teatro sentì la necessità di ricorrere alla figura dell’ispettore di polizia, rinunciando a quella dell’investigatore privato che domina molti polizieschi anglosassoni. Il motivo è legato a un bisogno di immediato realismo: la professione dell’investigatore era scarsamente diffusa nell’Italia del tempo, per cui difficile sarebbe stato darle credibilità agli occhi di un pubblico che, da questo genere di spettacolo, si attendeva, tra le altre cose, anche un forte senso di realismo.
Non è difficile immaginare come il teatro poliziesco, al pari della narrativa, sia caduto sotto i colpi della censura fascista. Il capitolo relativo alla censura è molto vasto e il teatro, in ogni tempo, ne è stato una delle vittime più illustri. Leopoldo Zurlo, censore ufficiale della dittatura fascista, uomo fortunatamente intelligente, sottilmente ironico e non del tutto allineato alle idee di Mussolini, fu messo particolarmente in guardia di fronte il teatro giallo. Il regime infatti lo tollerava a mala pena e, probabilmente, lo avrebbe proibito del tutto, se non avesse goduto di una così vasta popolarità. Ma, per potersi mantenere in vita, il genere poliziesco dovette destreggiarsi tra mille divieti che, come spesso accade, divennero stimolo per trovare soluzioni nuove e sorprendenti. Tutto questo spiega la scelta dell’ambientazione che è quasi sempre collocata fuori dal territorio italiano; oppure la nazionalità dei personaggi, quasi sempre inglesi, americani o francesi; oppure ancora l’obbligo di presentare in modo decoroso le forze dell’ordine, la cui rispettabilità e autorità non doveva essere mai messa in dubbio. È chiaro, infine, che l’idea di un giallo dal finale aperto, ossia senza soluzione o, peggio ancora, senza la cattura dell’assassino, non era neppure concepibile in epoca di dittatura.
Non è possibile tracciare un ritratto-tipo del commediografo poliziesco italiano, dal momento che non è mai esistita una scuola e che ciascuno giunse al palcoscenico attraverso percorsi artistici differenti. Eccezione fatta per Guglielmo Giannini, che è stato il nostro più prolifico autore di commedie poliziesche, per Giuseppe Romualdi, Vincenzo Tieri e Alessandro De Stefani, che vi si dedicarono abbastanza spesso, per gli altri autori il dramma giallo costituì solo una sporadica esperienza. È il caso, per esempio, di Guido Cantini, di Gian Capo, di Silvano D’Arborio, di Edoardo Anton, di Alberto Donini e di altri ancora, i quali composero una o due commedie poliziesche - spesso anche di ottima fattura -, preferendo poi dedicarsi ad altri generi teatrali.
È quindi possibile proporre una sorta di classificazione dei commediografi gialli italiani, suddividendoli in “occasionali”, “specialisti” e “drammaturghi-romanzieri”. Nel primo caso, ci troviamo di fronte ad autori che provenivano generalmente dall’esperienza del teatro brillante e della sceneggiatura cinematografica. Comune denominatore di questo gruppo di artisti fu quello di possedere una spiccata poliedricità professionale, incarnando in questo senso lo spirito della nuova società di massa, che vuole l’abbattimento delle barriere tra i diversi campi d’azione. Quasi tutti alternarono professioni anche assai differenti, presentandosi al pubblico ora sotto la veste del commediografo, ora come giornalisti, ora come sceneggiatori cinematografici, oppure - ed è il caso di Antonio Conti - come avvocati. Non sempre i prodotti sono di qualità, ma fra questi è possibile trovare anche commedie come L’orologio a cucù di Alberto Donini o Il serpente a sonagli di Edoardo Anton che ottennero successo eccezionale.
Gli autori che ho definito “specialisti” del giallo, sono coloro che ebbero occasione di cimentarsi in maniera continuativa, nel corso della carriera, con la commedia poliziesca. Si tratta di artisti come Alessandro De Stefani, Giuseppe Romualdi, Vincenzo Tieri, o l’accoppiata Giuseppe Achille - Bruno Corra che fu autrice di alcuni gialli di successo, trasformati in seguito anche in fortunate sceneggiature cinematografiche. In questo caso la qualità dei prodotti è generalmente buona, anche se non mancano certe cadute di gusto, alle quali però si contrappongono commedie molto valide. Gli elementi canonici del genere poliziesco sono sempre rispettati e non mancano talora proposte che anticipano analoghe soluzioni, adottate in seguito nella narrativa poliziesca italiana. Tra i titoli che sono rimasti celebri va ricordato L’ombra dietro la porta (1934), L’urlo (1934) e Triangolo magico (1935) di Alessandro De Stefani; La casa del parco (1928), L’ultima carta (1932) e il celeberrimo Glisenti calibro 9 (1935) di Giuseppe Romualdi; La paura (1934), Il raffio (1934) e La sbarra (1935) di Vincenzo Tieri; Traversata nera (1935) e Le torri del diavolo (1935) di Giuseppe Achille e Bruno Corra.
L’ultimo gruppo di autori, infine, presenta alcuni nomi celebri del giallo italiano. Si tratta di persone come Alessandro Varaldo, Ezio D’Errico, Augusto De Angelis, Tito Spagnol che ebbero occasione, chi più chi meno, di avvicinarsi anche al teatro. In alcuni casi si tratta - come per De Angelis o Spagnol - di esperienze passeggere. Per D’Errico e soprattutto per Varaldo invece, l’esperienza durò più a lungo, con la realizzazione di lavori di una certa qualità. Di quest’ultimo, oltre al già ricordato Tappeto verde (1931), si possono citare La primula rossa (1932) e Un sigaro nell’ombra (1941).
Un posto a parte lo occupa Guglielmo Giannini (1891-1960), autore di una cinquantina di commedie, delle quali una buona metà appartenente al genere poliziesco. Dopo l’esordio con Grattacieli nel 1930, proseguì con opere generalmente di ottimo livello, nelle quali si apprezza l’analisi psicologica dei personaggi, l’arguzia dell’intreccio, le atmosfere degli ambienti, il dialogo sempre arguto e ricco di tensione drammatica. Autore poliedrico, Giannini ha esplorato tutte le possibili varianti del genere, dal giallo più rigoroso a quello intriso di sentimentalismo, dal dramma di memoria grand-guignolesca, al giallo-brillante in cui spesso si riconosce una sorta di parodia al genere stesso.
Impossibile citare tutti i polizieschi di Giannini, ma sia per lo meno concesso di ricordare Grattacieli (1930) in cui l’autore anticipa una soluzione che ritroveremo nel 1934 in Delitto sull’Orient-Express di Agatha Christie: in entrambi i casi il detective, dopo aver dato la soluzione ufficiale del caso, offre ai presenti una scappatoia, grazie alla quale tutti si salvano. Anonima Fratelli Roylott (1934), uno dei polizieschi più amati dal pubblico italiano, in cui vengono adottate nella parte finale soluzioni espressionistiche e da grand-guignol. La sera del sabato (1934), pregevole studio d’ambiente nell’America degli emigrati italiani. Mimosa (1935), convincente ritratto di un’eroina che, ingiustamente sospettata, riesce a farsi giustizia da sé risolvendo un caso molto intricato. Lo spassoso Supergiallo (1936), poliziesco da manuale in cui tutta la vicenda ruota curiosamente non attorno a un assassinio, ma a un braccialetto scomparso. Il tredicesimo furfante (1937), giallo-rosa in cui la simpatica protagonista intraprende una vera e propria detection alla ricerca del misterioso violentatore che ha messo in cinta la domestica. Il nemico (1941), affascinante poliziesco ambientato sullo sfondo della seconda guerra mondiale. La tavola rotonda (1951), ove Giannini, con una certa propensione allo sperimentalismo, interrompe la vicenda poco prima che si giunga alla conclusione, invitando il pubblico a suggerire la possibile chiusura dal dramma. La trama poliziesca è costruita in modo talmente rigoroso, che il pubblico può fornire solo tre possibili soluzioni alternative, che sono quelle sceneggiate dall’autore nell’ultima parte del copione.
Come ogni genere di successo, anche la commedia gialla ebbe i suoi parodisti. In questo caso si trattò di un parodista di lusso, quale Achille Campanile che, nel corso della sua lunga e bizzarra carriera, ebbe più volte occasione di satireggiare il poliziesco. Basti pensare ad alcune Tragedie in due battute come Dramma giallo o Mani in alto o a un lavoro di più ampio respiro come Delitto a Villa Roung del 1939.
Lo studio condotto sulla commedia poliziesca italiana mi ha spinto a formulare una serie di ipotesi che hanno negato, almeno in parte, la possibilità di fruizione di questo genere teatrale da parte di un pubblico autenticamente di massa, almeno per quanto riguarda gli anni Trenta. Valutando oggi la situazione di allora, credo sia possibile attribuire al giallo valori riposti e una sottile vena polemica nei confronti del fascismo, che certamente all’epoca solo una ristretta cerchia di intellettuali seppe scorgere.
Senza dubbio la commedia poliziesca è figlia della sua epoca. Seppure in modo meno marcato, sebbene senza velleità avanguardistiche, anche il dramma poliziesco reca i segni dell’evoluzione teatrale d’inizio secolo. Lo dimostrano innanzitutto i personaggi che, in accordo con i canoni di allora, non presentano più un’impostazione naturalista: la stessa serialità che caratterizza il giallo, tende infatti a trasformare i protagonisti in maschere e a far recitare loro una parte preconfezionata. Un’altra novità a livello drammaturgico, è la predilezione per l’ambiente interno. Se è vero che tale scelta era dettata in parte da motivi economici e in parte da esigenze direttamente collegate allo spirito del genere giallo, è anche vero che questa soluzione rispecchia appieno una sensibilità tipica della scena primo novecentesca. Al posto degli spazi aperti, vengono privilegiati gli interni che divengono sempre più claustrofobici, vere trappole ove imprigionare i protagonisti. Non è più il salotto borghese, bensì quello cechoviano o, ancor meglio, quello inquietante e crudele dei drammi di Sartre ove gli uomini, forzatamente chiusi, iniziano ad affrontare tortuose indagini interiori.
La predilezione per l’ambiente chiuso, così come la ricerca interiore, erano due elementi assolutamente in contrasto con lo spirito della dittatura fascista. All’esaltazione degli spazi aperti, capaci di ospitare le grandi adunate di massa, alle prospettive infinite che incutevano un senso di rispetto, la commedia gialla oppone lo spazio banale e della camera chiusa. E in questo spazio angusto ha luogo un teatro che, privo d’azione, privilegia soprattutto la parola e il ragionamento. Elementi questi assolutamente sgraditi a un regime totalitario, che vedeva con sospetto qualsiasi cosa potesse spingere lo spettatore verso un’analisi troppo approfondita della realtà. In questo senso il poliziesco, in quanto spettacolo commerciale, si differenziava da altri generi di rappresentazione che miravano piuttosto - in accordo con le indicazioni del fascismo - a colpire la fantasia dello spettatore con la magnificenza. Da un lato quindi un teatro che tendeva al moderno intimismo, dall’altro la soluzione monumentale degli spettacoli dei Carri di Tespi.
Resta ancora da chiarire quale fosse il pubblico che, nel corso degli anni Trenta, affollava gli spettacoli polizieschi. Le documentazioni in tale senso, non sono molte, ma è comunque possibile fare alcune ipotesi. A proposito del genere giallo, si è sempre parlato di un pubblico di massa, eterogeneo per interessi, per estrazione sociale e per livello culturale. È tuttavia indubbio che il teatro di prosa, luogo all’epoca ancora riservato all’élite borghese, non poteva accogliere un pubblico eccessivamente eterogeneo. Lo impediva l’ampiezza stessa dell’edificio, i prezzi d’ingresso non sempre alla portata di tutti, nonché una certa tradizione che vedeva nel teatro di prosa un luogo inviolabile e riservato a determinate cerchie sociali. È certamente vero che nel corso degli anni Trenta prese piede il teatro commerciale e con esso la possibilità di aprire il “tempio” dell’alta borghesia, a classi sociali nuove. Nonostante tutto, è difficilmente credibile che l’intera varietà di lettori che era solita acquistare i romanzi gialli, accorresse poi anche a teatro per assistere alla rappresentazione di un dramma poliziesco. La riprova è fornita dai dati inerenti la circolazione dei gialli Mondatori e dalle cifre riguardanti lo sbigliettamento per gli spettacoli polizieschi. In proporzione, molto numerose le prime, più contenute - pur nella grandezza del numero - le seconde. Ci troviamo quindi di fronte a gruppi di utenti diversi, che se da un lato potevano essere parzialmente sovrapponibili, dall’altro tuttavia presentavano alcune diversificazioni. In questo senso, è facile ipotizzare che gran parte degli spettatori della commedia gialla leggevano anche romanzi polizieschi, mentre viceversa solo una parte degli appassionati di quella narrativa si recava anche a teatro.
Il trasferimento del poliziesco da un mezzo di vasta portata come quello letterario e cinematografico a un mezzo sostanzialmente élitario come il teatro, concretizzava senza dubbio la volontà di trasformare anche il teatro in un mezzo di massa, adeguando alle sue esigenze un genere che, nel corso degli anni Trenta, era divenuto il più significativo rappresentante delle nuove strategie del mercato culturale. Tuttavia si deve sottolineare che, almeno per quanto riguarda gli anni Trenta, il pubblico del poliziesco letterario non era così numeroso come quello dei nostri giorni. Indagini compiute in tale senso hanno dimostrato che il giallo, pur essendo il genere di maggiore circolazione, rimaneva comunque confinato entro la cerchia di un pubblico intellettuale. Pur essendo un prodotto di consumo, il poliziesco rimaneva sempre un gioco a enigmi, un “rompicapo” letterario che richiedeva al lettore una certa capacità intellettuale. Così, allo stesso modo, il dramma poliziesco, autentico “rompicapo teatrale”, poteva trovare un pubblico adeguato solo presso una platea scelta, composta da spettatori culturalmente preparati. E d’altra parte questo pubblico d’élite, proprio in virtù delle sue capacità intellettuali, era forse l’unico in grado di attribuire al giallo significati che andavano ben oltre il semplice gioco a indovinelli.
Un’analisi cosciente di un fatto artistico, deve cercare di porre entro le dovute proporzioni il valore del fenomeno studiato. In altri termini, cercare di capire qual è il reale valore delle opere analizzate e rispondere, obiettivamente, se ha senso la riproposizione di testi dimenticati da tempo. Cercando di rispondere dapprima al secondo quesito, posso dire che l’analisi della commedia poliziesca italiana era l’ultimo tassello ancora mancante a quel vasto mosaico di studi condotti sul giallo made in Italy. Si completa così un panorama composito, pur nella piena coscienza che sarà necessario approfondire ulteriormente lo studio della commedia poliziesca. Quanto al primo interrogativo, deve essere subito messo in chiaro che ci troviamo di fronte a delle commedie scritte per il circuito commerciale, e quindi di genere e di impegno completamente differenti rispetto l’opera di un Pirandello, di un Rosso di San Secondo o di un D’Annunzio. Ciò tuttavia non ha impedito al poliziesco teatrale di divenire per tutto il corso degli anni Trenta e Quaranta, uno dei generi più apprezzati dal pubblico.
Nella prospettiva di un possibile ritorno del poliziesco italiano sui palcoscenici teatrali, sorge infine spontanea la domanda quanto meriti riesumare le commedie scritte negli anni Trenta. È difficile rispondere a tale quesito, in quanto la prova definitiva può essere data solo dal palcoscenico. Tuttavia, volendo cercare una risposta, si potrebbe affermare che rappresentare una commedia gialla degli anni Trenta è un po’ come rileggere un romanzo poliziesco di Varaldo o di De Angelis: entrambi sono la testimonianza di un’epoca che non c’è più, entrambi, contemporaneamente, sono i testimoni di un processo culturale che ci appartiene e che non è ancora del tutto terminato. Al palcoscenico, poi, spetterà il responso finale [2].
[1] Il discorso che Mussolini tenne al Teatro Argentina è riportato in «Nuova Antologia», n. 3, maggio-giugno 1933.
[2] Nell’ottobre 2008, in occasione della prima edizione di “Grado Giallo”, il festival dedicato ai generi del mistero, è stata proposta la lettura scenica de La casa del parco di Giuseppe Romualdi, per la regia di Paolo Quazzolo.
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