Verrebbe voglia di dire: “Basta con il noir”. Non per spregio del genere, anzi! E’ un fatto che oggi in Italia i romanzi noir d’autore assolvono più e meglio di altri al compito – se esiste questo compito – di rappresentazione del contesto storico che il nostro paese attraversa dagli anni della strategia della tensione all’avvento della televisione commerciale: degrado di valori e culto del mercato come unico metro di riconoscimento sociale, culturale, artistico.
Un passaggio, quest’ultimo, che si è avvalso di intrighi di ogni genere e complicità diffuse, il tutto in chiave di reazione alle parallele conquiste civili e sociali, che ha trovato impreparati altri scrittori non usi al filtro del genere.
Quella stagione, cominciata con Fenoglio, Pavese, Vittorini, Moravia, Bassani, e finita con Volponi, Ottieri, Pasolini, Sciascia, con l’intermezzo inquieto, sperimentale, del Gruppo 63 - la cui operazione solo apparentemente chiusa in ambito letterario era in realtà dirompente sul piano più generale, politico ed editoriale - non ha prodotto analoghi punti di riferimento. Un vuoto che a cavallo del nuovo secolo è stato riempito, appunto, solo dagli scrittori di noir, i Macchiavelli, gli Ammaniti, i Carlotto, i De Cataldo, i Genna, i Lucarelli, i Saviano con la loro capacità di raccontarci questi anni, tanto da essere ben presto sostenuti da operazioni editoriali che hanno coinvolto le maggiori case editrici: a cominciare dall’Einaudi che, sul fenomeno, ha costruito addirittura una collana, quella “Stile Libero” che ha segnato il suo punto di arrivo più alto, a mio avviso, con “Romanzo criminale” di De Cataldo, dopo il quale resta difficile continuare a percorrere la stessa strada. Per tutti, compreso, immagino, l’autore, segnato da questa significativa esperienza che non va tanto considerata sulla base del meritato grande successo di pubblico, ma soprattutto come opera letteraria, espressione paradigmatica di una tendenza generale. Ora, il rischio è quello di fare il verso a se stessa, di diventare moda, perdendo così l’impatto – critica sociale, nuovi linguaggi - che tuttora caratterizza il noir italiano. Per altri versi, un altro segnale, in questo senso, viene dalle critiche di Guglielmi all’ultimo romanzo di Ammanniti “Come dio comanda”. Insomma, c’è il rischio dell’omologazione.
Ecco perché viene voglia di dire: “Basta con il noir”. Sarà possibile liberarci da questa sorta di sudditanza che condiziona l’editoria e, di conseguenza, gli autori stessi, la loro ricerca? Anche se sarebbe interessante analizzare quanto reciproca sia l’influenza.
Ma la riflessione da fare sarebbe un’altra: cosa è necessario perché accanto a una presenza così vistosa, quasi totalizzante, del noir (ri)sorga una narrativa che, abbandonati i topoi del “genere” sia in grado di essere dinamicamente rappresentativa del contesto storico, politico, sociale, culturaleche abbiamo intorno e/o percepiamo? Certo, se diamo retta ai sintomi, questi sono in puro stile noir: si pensi alla più recente strage di Castel Volturno dove sei neri vengono uccisi all’interno di una guerra per il controllo del territorio per quanto riguarda il traffico degli stupefacenti, delle armi, della prostituzione. Oppure, delitti mossi da idiosincrasie razziali, che generano mostri il cui prototipo sono gente apparentemente comune come i coniugi Romano, quell’Olindo e quella Rosa, che non sfigurerebbero in un romanzo di Ammanniti o Carlotto. Ma c’è da chiedersi perché tutto ciò che sottostà, in termini socioeconomici, politici e culturali, a simili eventi, perché questa Italia insomma, in tutta la sua complessità, non possa essere avvertita sotto pelle e raccontata da scrittori avulsi da qualsiasi impulso noir, così come Parise raccontava la sua provincia veneta o Pasolini le sue borgate romane?
Sempre che, naturalmente, sia questo il compito di uno scrittore.
O è sufficiente che, per essere espressione del suo tempo, l’opera in se stessa, indipendentemente da ciò che rappresenta, si qualifichi al meglio, per dirla con Asor Rosa, come organizzazione formale del testo? Ovvero, opera che “travalica la pura funzione informativa e si presenta come un dato che vale la pena di comunicare, - e gustare, apprezzare, studiare, - in sé (…) indipendentemente dal contenuto di cui è portatrice”?
Però, anche qui, gli esempi mancano. Bevilacqua? Baricco? De Carlo? Veronesi? Forse. Comunque, un giro ancora troppo piccolo, o forse troppo debole, per dare una spallata al comandante Noir.
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