E' una storia di numeri e di misteri: una triangolazione che vede per protagonisti tre matematici, ma prima di tutto tre uomini che incarnano la ricerca in teoria dei numeri come missione e stile di vita.

Una storia avvincente in cui, oltre alle formule, convergono anche idee e venti di guerra. E David Leavitt ce la racconta con maestria, sbriciolando e tessendo verità e fiction, nel romanzo Il matematico indiano. In cui i protagonisti sono tre matematici realmente vissuti: Hardy (1877-1940), Littlewood (1885-1977) e Ramanujan (1887-1920). Noti agli addetti ai lavori, (si cimentarono, infatti, con ostinazione nel tentativo di dimostrare l'ipotesi di Riemann, senza peraltro riuscirvi), meno familiari al grande pubblico, perché il palcoscenico della storia non brilla per i ricercatori solitari. E con loro, sotto i riflettori si muovono e prillano personaggi di storia e di invenzione, tutti vivissimi e ben animati, che restituiscono l'atmosfera, i colori, le manie, le grettezze, i sotterfugi di un ambiente accademico elitario, come quello di Cambridge, durante il decennio 1910-1920.

Per dare un'idea: con il futuro filofoso Wittegenstein, appaiono anche il poeta Rupert Brooke, il filosofo Bertrand Russell e il futuro economista Keynes.

Ma il vero attrattore è lui: l'indiano Ramanujan. Il genio, l'intuitivo, l'imprevedibile bramino "scoperto" da Hardy.

Cambridge, gennaio 1913. Che cosa succede quando uno dei matematici più famosi del mondo, G. H. Hardy, scopre, fra la corrispondenza adagiata sulla sua scrivana, un plico spiegazzato proveniente dalle colonie indiane? Per caso lo apre e comincia a leggere, mentre la gatta bianca Hermione si accoccola sulla sue ginocchia e affonda gli artigli nelle gambe.

"Gentile Signore,

mi pregio di presentarmi a Lei  in qualità di impiegato presso l'Ufficio di contabilità del porto di Madras, con un salario di sole venti sterline l'anno. Al momento, ho quasi ventitré anni. Non ho ricevuto un'istruzione universitaria ma ho frequentato le scuole regolari. Dopo aver lasciato la scuola, ho utilizzato il tempo libero a mia disposizione per occuparmi di matematica. Non ho seguito la strada convenzionale che si segue in un corso universitario, ma sto tracciando un nuovo percorso tutto mio. Ho fatto una ricerca approfondita sulle serie divergenti in generale e i risultati che ho ottenuto sono definiti dai matematici di queste parti sorprendenti...."

Autore della missiva è Ramanujan. Nelle pagine formule e numeri  danzano senza obbedire al formalismo tradizionale. Tuttavia, i risultati sono corretti, precisi e parlano un linguaggio moderno. E Hardy, dapprima diffidente, si convince del talento e dell'intuizione nascosti in quei surrogati di dimostrazioni matematiche.  Al punto da "creare" le premesse per far venire Ramanujan a Cambridge. Per lavorare assieme. In sodalizio, uniti nel tentativo di "domare" il caotico rincorrersi dei numeri primi. Cinque anni di collaborazione gomito a gomito,  di dialogo e, a volte scontro, scientifico e interculturale, di silenzi e di velate incomprensioni. Un rapporto interrotto solo dall'improvvisa malattia e dalla morte di Ramanujan.

"Ramanujan è stato una mia scoperta", sosteneva Hardy, in età avanzata. "Non l'ho inventato io - come altri grandi uomini, egli ha inventato se stesso - ma sono stato la prima persona realmente competente che abbia avuto la possibilità di vedere alcuni suoi suoi lavori, e ricordo ancora con soddisfazione che riuscii a capire subito che tesoro avevo scoperto."

David Leavitt  (1961) è considerato ormai classico nel panorama della nuova narrativa americana. Vive fra gli Stati Uniti e l'Italia.