La sindrome di Tourette è una condizione che spinge il malato a improvvisi sfoghi verbali, costituiti per lo più da parolacce urlate e/o giochi di parole che interrompono il normale modo di esprimersi del soggetto nei momenti di nervosismo o quando qualche elemento della realtà circostante attira la sua attenzione e innesca lo sfogo tourettico. A questo elemento orale-verbale della sindrome è associato quello fisico: tic e gesti compulsivi, che spesso richiedono il contatto con l’interlocutore o la ripetizione precisa di un medesimo gesto (aprire e chiudere una porta, accendere e spegnere un interruttore, toccare un certo numero di volte la spalla di una persona). Questa sindrome viene utilizzata da Lethem nel romanzo, scritto in prima persona, non solo come effetto di superficie ma come parte integrante della personalità e della capacità espressiva e comunicativa del protagonista.
Lionel Essrog, soprannominato da Frank Minna ‘the free human freakshow’ è dunque soggetto a inopinate raffiche di parole, vere e inventate, talvolta ingiuriose, spesso, se non sempre, inappropriate alla situazione o decisamente imbarazzanti.
Il noir della Brooklyn orfana articola, come già accennato, una storia tipicamente hard-boiled: Frank Minna, delinquente di piccolo cabotaggio in affari con la criminalità organizzata italiana e con una oscura corporation nipponica viene fatto fuori quasi davanti agli occhi di due dei suoi uomini: i ‘ragazzi di Minna’, quattro orfani salvati dal brefotrofio e cooptati per lavorare in un’agenzia di servizio taxi che in realtà copre un giro di affari fatto di commissioni e lavori ad-hoc per i veri clienti di Frank (la mafia e i giapponesi).
Lionel inizia a indagare e a poco a poco finisce invischiato in una vicenda alla Philip Marlowe, con tanto di doppie identità, inopinate agnizioni, ritorni dall’oltretomba e via discorrendo.
La costruzione dell’intreccio dimostra tutta la sua originalità appena dopo l’inizio: Jonathan Lethem racconta la morte di Minna come se fossimo in un romanzo di Hammett o Chandler, ma subito dopo si concede un lungo, lunghissimo flashback che stravolge il prevedibile andamento noir della vicenda per ricostruire l’infanzia del protagonista e il suo rapporto con Frank fino alla creazione del ‘servizio taxi’ e alla definitiva uscita dei quattro ragazzi dall’orfanotrofio.
Posta all’inizio del romanzo, questa lunga digressione rende chiaro al lettore che l’autore solo apparentemente intende seguire i dettami della detective story e mira invece alla resa del personaggio Lionel Essrog, cioè alla costruzione di una individualità ‘altra’.
La pagina di Motherless Brooklyn è infatti punteggiata di asterischi (* * *) che segnalano gli spazi in cui il narratore sospende la ricostruzione degli avvenimenti per riflettere su fatti, persone, sensazioni, ricordi emersi nel corso del racconto. Questa libertà della struttura narrativa, unita alla scansione degli stati d’animo del protagonista tramite gli sfoghi tourettici, dà al romanzo la sua originalità e lo distacca nettamente dalla produzione mainstream del genere noir hard-boiled. Lethem crea un personaggio lontano dal prototipo dell’investigatore alla Sam Spade pur assumendone e utilizzandone tutti gli stereotipi; utilizza la sindrome del protagonista-narratore per creare un senso di estraneità in situazioni altrimenti banali e ultra-codificate, trovando così un terreno neutrale fra il genere e la letteratura.
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