In nessuna delle tue opere, neppure nei racconti d’inizio, ha mai seguito pedissequamente le regole del giallo. Sei uno che sperimenta, che va controcorrente o che semplicemente segue la sua natura?

Decisamente uno che segue la sua natura, uno che scrive le uniche cose che è in grado di scrivere, dark novels dove l’elemento investigativo è spesso ridotto a poco più di un dettaglio. Non mi interessa tanto l’indagine, sono più un osservatore di comportamenti umani che un detective.

Ti definiscono autore minimalista. Lo sei solo nella forma?

No, non penso. In genere non amo molto le definizioni, alla fine credo di essermi scoperto minimalista per caso, probabilmente ho frequentato troppa letteratura americana anni ottanta, Leavitt, Easton Ellis. Mi piace il minimalismo, ad ogni modo: la scrittura priva di orpelli, e di zavorre. Non è solo una questione stilistica: sono i contenuti minimalisti che mi affascinano. La quotidianità, la vita della porta accanto. Con tutto il suo carico di follia, di frustrazione, di ambizioni represse.

A leggerti -atmosfere cupe, protagonisti isolati nel loro eremitaggio spirituale- sembreresti un autore ombroso, magari un po’ solitario e scontroso. Nella realtà sei esattamente il contrario. E’ uno degli incantesimi della finzione narrativa?

Non lo so. A volte me lo chiedo anch’io. Un positivo che decanta la sua anima nera nelle cose che scrive, o uno psicopatico che recita un ruolo nella vita reale? Non credo ci sia una risposta a questa domanda: siamo tutti una strana alchimia di elementi contrastanti, bianco, nero, di certo c’è che quando sono davanti al portatile sono poco interessato a raccontare storie edificanti. Poi invece magari non sono nient’altro che un moralista che usa il male come una sorta di apologo: può essere, ma ti assicuro che non ce n’è l’intenzione. Non sono interessato alla funzione pedagogica della narrativa: voglio protagonisti negativi e dolenti, perduti nella loro sofferenza e nella loro incapacità di essere come gli altri.  

Dopo Storie d’amore, di morte e follia (Arpanet, 2005) e Io non sono come voi (Pendragon, 2007), sta per uscire il tuo terzo romanzo. C’è stata un’evoluzione (o un’involuzione) del tipo di protagonista rispetto al primo e al secondo Berselli?

Un’evoluzione c’è sempre nelle cose che scrivi, più che altro nell’ispirazione. Anche se rimani sugli stessi temi i protagonisti mutano, diventano grandi, si integrano nel tessuto sociale ma non perdono le loro caratteristiche di dannazione.

Claudio Roveri, il protagonista del terzo Berselli è così: non è più un borderline come Paolo Graziani, è uno che nella società ci sta bene, è ricco, affermato, ha una bella famiglia. Ma sarà davvero così o sono solo apparenze? Il male si insidia dappertutto, soprattutto dove non te lo aspetti.

Quali sono i tuoi comandamenti quando scrivi un libro? Riesci a seguirli?

Nessun comandamento e nessuna regola. Se ci sono degli standard nella mia scrittura, ed è normale che ci siano, tutti abbiamo una grammatica stilistica di riferimento, questi di certo non vengono applicati con un meccanismo di auto-induzione. Si parte da un’idea forte e si cerca di renderla patrimonio comune, trovare il sistema per poterla condividere. Diciamo che la conditio sine qua non è il divertimento: poter scrivere quello che si vuole senza vincoli è un privilegio che spesso la piccola editoria è in grado di garantirti. La serialità è remunerativa ma spesso frustrante. Essere schiavo di un personaggio, o rimanere sulla stessa idea di racconto. Terribile.

Se un fratello minore o un amico volesse diventare scrittore, quale divieti gli imporresti?

Divieto è una parola che contravviene alla democraticità della scrittura. Oddio, non che sia per una espressione anarchica delle arti, ogni forma di comunicazione ha delle regole, ma di certo non potrei arrivare ad imporre dei diktat sulle cose da scrivere e quelle da non scrivere. O sulla forma. Diciamo che non considero conveniente prescindere da quello che è il nostro tempo inteso come momento storico: siamo nel terzo millennio, quindi usiamo i codici del terzo millennio. Nelle storie che raccontiamo e nello stile che pratichiamo.

In un’intervista hai fatto una dichiarazione coraggiosa ammettendo una situazione di fatto, nel campo dell’editoria, che solitamente si fa passare sotto silenzio: «Le case editrici non hanno tempo di leggere tutto il materiale che ricevono, quindi riuscire a farsi notare è spesso un complicato e snervante gioco di relazioni».

Non l’ho detto con la volontà di colpevolizzare l’editoria, che è sommersa da materiale nel quale non è in grado di districarsi, ma con l’intenzione di sottolineare come spesso un buon lavoro di contatti e di relazioni, laddove ci siano le capacità, può essere davvero l’elemento in grado di fare la differenza. C’è un marketing anche nella scrittura e nella propria capacità di sapersi collocare in un mondo, quello degli esordienti, che definire inflazionato è solo un pallido eufemismo.

La musica, nelle tue pagine, è quasi sempre di sottofondo. Si tratta di un genere che ha attinenza con gli anni della tua formazione culturale?

La musica è fondamentale nelle cose che scrivo. C’è sempre musica nella mia letteratura, a volte intesa  non solo come sottofondo scenografico ma proprio nel ruolo di co-protagonista, con una sua funzione specifica.

La mia formazione musicale è parte integrante del mio percorso di scrittore: il grunge per Paolo Graziani è molto di più che una semplice colonna sonora, è l’elemento caratterizzante del suo disagio, del suo essere ai margini. Il rock è una musica fortemente drammatica, lacerante, nessun altro genere musicale ha cantato così tanta disperazione come la musica rock. Mi piace intendere la mia scrittura come musica: una cosa che, quando riesce, tocca corde emotive e trasmette sensazioni.

Paolo, il protagonista di Io non sono come voi uccide le persone che provano ad amarlo, perché questo connubio tra eros e thanatos? C’è nel fondo dell’amore una tensione verso la distruzione?

Evidentemente sì, ed è la cronaca a ricordarcelo ogni giorno. L’amore ha una forza distruttiva che non riusciamo nemmeno ad immaginare, capace di alternare dolcezza a violenza, felicità ad angoscia. C’è sempre l’amore nelle cose che scrivo, anche se spesso si tratta di amori fortemente condizionati dal presagio del tragico epilogo.

Tu dedichi pagine e pagine al male. Come lo descriveresti se si trattasse di un elemento della natura?

Non lo so. Il mare, forse, l’acqua. In effetti l’elemento liquido è una bella metafora di come a volte la vita si trasforma. Certe mattine il mare trasmette con la sua calma una serenità quasi osmotica. Altre invece ci inquieta con i colori della tempesta e delle onde che ci fanno paura. Sì, ci ho pensato. Decisamente l’acqua.

In chiusura ti chiedo un commento a questa massima di Plinio il vecchio: «In realtà non c’è nessun male che non abbia qualcosa di buono».

Credo sia vero. Dicotimizzare il bene e il male è una distinzione di comodo che non corrisponde a una visione reale delle persone e degli eventi. Mi fa piacere che tu mi abbia fatto questa domanda, forse perché non riesco a non considerare la negatività della natura umana come un fattore esclusivo incapace di considerare anche la bright side dell’anima, il lato luminoso. In fondo siamo tutti più o meno uno strano ibrido di buono e cattivo: percentualizzare le dosi in modo da far propendere il primo è un intento apprezzabile, ma non dimentichiamo che l’uomo è bipolare per definizione. Un po’ di bene e un po’ di male. E non esiste nessun male che non abbia anche una parte di bene.