Occhio ai neuroni!
Mi dispiace dirlo ma le prime volte che ho letto i suoi libri gli ho mandato anche qualche accidente. Per fortuna senza conseguenze se ha vissuto in buona salute per più di settanta anni. Dal 1906 al 1977. Mi ricordo di un episodio in cui c’era, mi pare, Bencolin (o forse Fell o addirittura Merrivale… insomma uno dei tre). Sembrava di essere in teatro con il palcoscenico che si alzava e abbassava e uscite segrete da tutte le parti. Non c’ho capito nulla. Ad esser sinceri alcune volte, diciamolo francamente, le soluzioni sono impossibili, altre del tutto geniali. In ogni caso sempre stressanti. Si arriva in fondo ai suoi libri con la lingua penzoloni e il respiro affannoso come quello dei cani in estate. Talora da studentello, poiché mi spallavo non poco a tradurre Cicerone, pensavo di rilassarmi gettandomi ingenuamente tra le sue costruzioni diaboliche. Con il medesimo effetto: occhi sbarrati e testa pesante.
Carter Dickson, ovvero John Dickson Carr, era proprio un bel tipo. Abbastanza alto o alto il giusto secondo i gusti, elegante, forbito, con un bel paio di baffetti da sparviero aveva la fortuna di portare in giro la stessa faccia spiccicata di David Niven, attore di gran classe e grande successo. E anche lui inglobava tutte le qualità per diventarlo. Tre di sicuro: il carisma, lo scilinguagnolo sciolto e la faccia tosta (e interessante, lo abbiamo già detto). E la teatralità. Ce lo racconta lo stesso Carr. A otto anni, mentre suo padre deputato al Parlamento parlava al Congresso, lui si mise a recitare il monologo di Amleto davanti ad alcuni signori. Ed era pronto a continuare con D’Artagnan, Sherlock Holmes e il Mago di Otz. Fu una sfortuna (o fortuna per chi lo ascoltava) che non avesse tempo. Piuttosto riservato e diffidente aveva poche amicizie ma anche una sana propensione all’ironia e all’autoironia che lo rendeva simpatico. Era generoso e naturalmente (nel senso per natura) “portato” per le belle donne. Senza strafare. Elegante anche in questo. E poi possedeva quel qualcosa in più, quel quid dovuto alle esperienze di vita. Americano della Pennsylvania finisce gli studi alla Sorbona di Parigi anche se nei suoi libri con l’irascibile Bencolin non sembra proprio che tra loro sia stato un grande idillio. La Parigi disegnata da Carr, come è stato giustamente osservato, è una città più sognata e fantasticata che reale. Quella più vecchia almeno di una ventina di anni. Dopo sposato va in Inghilterra, ha un bel successo con i suoi radiodrammi polizieschi, finisce addirittura per lavorare per la famosa BBC durante il conflitto mondiale.
Ma ritorniamo ai suoi libri. Ne scrisse talmente tanti che dovette usare anche gli pseudonimi Carter Dickson e Carr Dickson (ed anche Roger Fairbairn ad esser sinceri) per non infastidire i lettori ma in questa scelta non ebbe certo la malizia che riversava nelle sue storie. Tra John Dickson Carr e Carter Dickson o Carr Dickson non mi pare che corra tanta differenza. O forse fu la sua vanità a dettargliela. Voleva cambiare nome e nello stesso tempo farsi ancora riconoscere…
Il punto fondamentale che lo rende unico e in questo senso insuperabile è che lui vuole colpire, stupire, meravigliare il lettore. Lasciarlo con la bocca spalancata come uno stoccafisso. Certo nelle sue storie non mancano gli ingredienti di ogni giallo poliziesco che si rispetti a cominciare dal movente, ma l’interesse del Nostro è concentrato in una lotta costante con chi legge. Vuole vincere a tutti i costi e con tutti i mezzi. Anche a costo di strabordare e farsi dire sì buonanotte, ma allora, che diamine, impossibile, inventala un’altra. O ricevere una bordata di fischi. Ma se la cosa funziona sono applausi a scena aperta e bis a ripetizione con scoppi d’artificio. Il tutto condito da una viva predilezione (o se vogliamo predisposizione) per il gotico, per le ombre, per il mistero, per streghe e fantasmi che oggi farebbero anche ridere di fronte ad altre ben più terribili paure ma che allora un brivido lungo la schiena te lo facevano correre. Un illusionista. Ecco che cosa sarebbe diventato, ne sono sicuro, se non avesse avuto successo come scrittore. Un formidabile illusionista. Con la maschera diabolica ed un forte odore di zolfo.
Di John Rhode (1884/!964), ovvero Cecil Iohn Charles Street (qui si capisce il perché dello pseudonimo), posso dire poco, anzi niente, perché lo spazio è stato quasi tutto occupato da Carr. In comune il vizio di scrivere rompicapi impossibili. E se si mettono insieme queste due teste diaboliche allora può venire fuori Discesa fatale, Polillo 2008, dove i neuroni sono sotto costante pressione. Qui abbiamo Sir Ernest Tallant, un magnate dell’editoria, che si ritrova un buco in testa mentre è nel suo ascensore privato. Nessuno si è avvicinato alla cabina, niente arma del delitto. Il classico mistero dell’ascensore chiuso. A indagare l’ispettore capo David Hornbeam di Scotland Yard e il medico legale Horatio Glass.
Accodatevi a loro e in bocca al lupo!
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