L'abilità di Massimo Polidoro nel rendere in chiave thriller storie realmente accadute era già stata dimostrata nel libro uscito un anno fa, Etica Criminale, incentrato sulla figura del bandito milanese Renato Vallanzasca e recentemente riedito in collana economica sempre da Piemme. Con Un gioco infame invece Massimo cambia ambientazione e dal capoluogo lombardo passa all'Emilia Romagna e alle Marche, regioni in cui tra il 1987 e il 1994 agirono i banditi della Uno bianca, cinque poliziotti e un carrozziere che fecero in quel lunghissimo periodo ventiquattro morti e centodue feriti. Ma c'è una cittadina che più precisamente si posiziona al centro della storia raccontata in questo romanzo (che tuttavia sarebbe più opportuno definire docufiction): è Rimini, uno dei centri caldi delle indagini che per anni videro alternarsi investigatori e indagini e da cui, raccontano gli atti processuali, partì la svolta che pose fine, nel novembre 1994, alla storia della banda della Uno bianca.
Quando si scrive un romanzo - o quando si rievocano fatti reali volendo narrarli con gli strumenti che la narrativa mette a disposizione - occorre scegliere un punto di osservazione. Che può essere di un personaggio fuori campo, ma che meglio rende se il personaggio in campo c'è. La scelta di Massimo di scartare i fratelli Savi e i loro complici è corretta: la barbarie e la gratuità che caratterizzarono la loro storia criminale non li rende adatti ai panni di un protagonista, anche se lo si volesse cattivo e nerissimo. Allora le voci narranti sono altre e sono quelle di coloro che si sono guadagnati il merito di aver sgominato la banda, l'ispettore Luciano Baglioni e vice sovrintendente Pietro Costanza coordinati dall'allora sostituto procuratore di Rimini Daniele Paci.
La rievocazione fatta così dei fatti è fedele a quanto verrà ricostruito nei dibattimenti svoltisi a Pesaro, Rimini e Bologna dopo la cattura dei Savi & company. Nelle pagine di questo libro si raccontano dalle prime rapine ai caselli autostradali ai delitti più sanguinari, come l'agguato del 3 ottobre 1987 in cui muore il sovrintendente Antonio Mosca, le stragi dei carabinieri di Castelmaggiore (1988) e del Pilastro (1991), gli omicidi di testimoni casuali e inoffensivi (Adolfino Alessandri, 1989; Primo Zecchi, 1990) o ancora l'assassinio degli armieri bolognesi di via Volturno (1991). Ma nelle oltre cinquecento pagine sono moltissimi gli eventi narrati, anche quelli che non finiscono con la morte di qualuno. E l'unica concessione alla fantasia è per un personaggio che di fatto non è mai esistito: un anziano faccendiere di cose sporche che rappresenta - o forse tenta una possibile lettura - dell'ombra (questa sì realmente stagliatasi) gettata dalla Falange Armata, organizzazione eversiva che mai sparò in quegli anni, ma che rivendicò molti degli agguati della Uno bianca.
Con Un gioco infame si aggiunge un ulteriore tassello alla letteratura che affronta questo lunghissimo capitolo criminale della storia italiana. Una letteratura eterogenea che ha dato e dà diverse interpretazioni di questo fenomeno delinquenziale. E se persistono ancora oggi opinioni che tendono a non voler chiudere l'intera vicenda con la tesi - suffragata comunque in sede giudiziaria - dei rapinatori assassini che agivano all'interno di un compartimento stagno che ne favorì l'internimabile anonimato, il libro fornisce materiale per proseguirlo, un dibattito su questa vicenda, e scandagliarne una serie di aspetti.
Un gioco infame di Massimo Polidoro (Piemme, 2008) — 541 pagine — € 20,00 — ISBN 9788838499678
(Questo testo è rilasciato con licenza Creative Commons.)
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