Eccolo The Wrestler, di Darren Aronofsky, Leone d’Oro alla 65ma Mostra Cinematografica Internazionale di Venezia, una cavalcata commovente e autodistruttiva tra sangue, sudore, infarti, lacrime, baci, e tanto, ma proprio tanto, affetto tra lottatori giovani e lottatori anziani, mai uno sgarbo che è uno, anzi, massima collaborazione a riconoscimento reciproco dei propri meriti. Impossibile, dopo averlo visto, far finta che somigli ad un film capace di vincere a Venezia. Non siamo dalle parti di Still Life che vinse nel 2006, e nemmeno da quelle di Laust, Caution che si portò a casa il Leone lo scorso anno. Non siamo, per farla semplice, nella boutique del cinema dove risplendono le forme perfette e si grida al capolavoro. Stavolta siamo in un negozietto di periferia, dalle parti di “vendita all’ingrosso”, però che negozietto, e che vendita!
Se Depardieu nell’agghiacciante spot Cirio tiene “o core italiano”, Mickey Rourke, perché non si può parlare di The Wrestler senza parlare di lui, non tiene “o core italiano”, no, proprio no. Mickey Rourke tiene semplicemente un cuore grosso così, talmente grosso che tracima dallo schermo e allaga la platea lasciando gli spettatori a boccheggiare in un oceano solcato da un transatlantico costruito con quel materiale raro che risponde al nome di “identificazione assoluta tra attore e ruolo”, ergo “grande, anzi grandissima interpretazione”. Già, perché la storia di Randy 'The Ram' Robinson (Rourke) che venti anni fa era qualcuno ma oggi, venti anni, un migliaio di tagli, l’udito da un orecchio che non c’è più e una tonnellata di colpi dopo, trascina stancamente un corpo e una vita privata che hanno visto di meglio, è soprattutto la storia dello stesso Rourke, uno che di rise and fall se ne intende per averne conosciuti parecchi.
The Wrestler è un saggio antropologico di lancinante bellezza sulla necessità di non tradire se stessi e su come invece pentirsi di aver tradito gli altri (i figli soprattutto…), il tutto letto attraverso un mondo, quello del wrestling americano, un mondo tutto croce e delizia. Croce per chi lo respinge in toto accusandolo di essere solo è soltanto un trucco (come se il wrestling volesse essere scambiato per “realtà allo stato puro”), e delizia per chi ne è invaghito perché grazie ad esso intuisce che è ancora possibile accedere ad una moderna mitologia che intanto continua a vivere, anche se per continuare a farlo dovrà per forza confrontarsi con le ombre e le storture che la abitano (la piaga del doping, che nel film è presente, e le tante, troppe, morti degli ultimi anni…).
Il salto finale di Randy, la cui figura scorre lungo tutta l’inquadratura fino ad uscirne senza che la cinepresa faccia un passo per seguirlo, fa tornare alla mente il fotostop di Bruce Lee in Dalla Cina con furore (anche se adesso il fotostop, sul quale ci saremmo giocati la testa manca…). Mentre nello spazio di pochi secondi Randy The Ram (l’ariete) salta, salta oltre se stesso, oltre il proprio cuore, oltre il ring, oltre la vita stessa, saltiamo pure noi. Saltiamo sulla sedia, saltiamo con la fantasia, saltiamo da un Leone d’Oro come ce ne sono tanti, ad uno che non doveva esserci e invece c’è stato.
Quando uscirà, ché questa che abbiamo sbirciato era un anteprima, sarà da vedere, da vedere, da vedere…
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