Mike Terry (Chiwetel Ejiofor) campione di arti marziali e insegnante di jiu-jitsu, ha scelto di non seguire la fama e il successo a tutti i costi (“la competizione indebolisce” ripete ai suoi allievi…). Una sera, però, un incidente involontario nella sua palestra, dà inizio ad una serie di eventi che alla fine lo costringeranno a tornare sul ring…
Sei in cima (nel senso che hai il rispetto dei tuoi allievi, il che non è poco…) cadi, ti rialzi.
Questo è esattamente Redbelt (cintura rossa) così come lo racconta David Mamet attingendo a piene mani sia al mondo del jiu-jitsu ( di cui è un appassionato cultore (oltre che cintura blu…), sia ad un altro mondo, quello di un genere (che è, è rimane, “la promessa di un mondo…”), lo sport-movie, genere che meglio di tanti altri si presta a chiarire i rapporti di un personaggio non solo e soltanto con le proprie virtù ma anche, e soprattutto, con i propri limiti, genere tutt’altro da disprezzare e che ancora ha qualcosa da dire, come dimostra il recentissimo Leone d’Oro andato al The Wrestler di Darren Aronofsky.
La discesa di Terry verso ciò che meno ambisce, la competizione cioè, è il punto finale di una catena di eventi inarrestabili dove Mamet ha gioco fin troppo facile nel ricordare come il suo cinema è un cinema che si fonda quasi per intero sull’assunto che “nulla è come sembra” e che mai un qualunque evento finisce col corrispondere punto a punto col suo significato esplicito. Mamet non si smentisce nemmeno quando si tratta di tirare le fila del congegno che ha messo a punto con la solita innegabile bravura (dato un principio da una parte e la negazione dello stesso dall’altra, l’abilità consiste nel colmare la distanza tra i due…), facendo combattere i due contendenti non nello spazio sacro delimitato dalle corde del ring, ma al di fuori di esso, trovata a suo modo geniale soprattutto quando si tratta di tenere a bada la retorica del vincente, perché i vincenti, nel cinema di Mamet, ammesso che ce ne siano, sono sì vincenti, ma di sguincio, cinture rosse o meno…
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