Il pranzo è servito…
Come recensore non nascondo le mie simpatie. Mi pare un gesto corretto verso i lettori che così potranno valutare meglio le mie osservazioni e i miei giudizi. Con il consiglio di rendersi sempre conto di persona sulla bontà o meno di ciò che viene scritto in una recensione. Ergo andare in libreria, prendere il libro in mano, aprirlo, sfogliarlo e magari leggere qualche pagina prima dell’acquisto che ormai anche questo parto nefasto dell’uomo incomincia a costare l’ira, non dico proprio di nostro Signore, ma di qualche Santo di tutto rispetto sì.
E dunque, come dicevo, non nascondo il mio naturale entusiasmo quando metto le mani su qualche libro del grande Isaac Asimov relativo alla famosa combriccola dei Vedovi Neri. Dopo avere acquistato I racconti dei Vedovi Neri (2006) e Dodici casi per i Vedovi Neri (2007 - cfr. libri/5816), ecco a voi I banchetti dei Vedovi Neri, pubblicati sempre dalla Minimum Fax 2008. Con una bella copertina giallo-arancione che ti tira un po’ su anche il morale (e di questi tempi ce n’è bisogno).
Per presentarli, essendo un pigrone del Toro nato per di più il 1 maggio festa dei lavoratori, riprendo una parte di una passata recensione: “Thomas Trumbull, Mario Gonzalo, Emmanuel Rubin, Roger Halsted, James Drake, Geoffrey Avalon: sono i nomi cui corrispondono gli stimati membri del club dei Vedovi Neri. Sei gentiluomini, forse un po’ troppo litigiosi, che ogni mese si riuniscono in un ristorante per mangiare cibi raffinati, bere del buon brandy e conversare amabilmente. Hanno con sé Henry, il fidato cameriere che democraticamente hanno eletto a membro onorario del club, e a ogni riunione invitano un ospite, che meno democraticamente tormentano, in sei contro uno, con il loro “interrogatorio”, “Come giustifica la sua esistenza?”, chiedono i Vedovi Neri al malcapitato di turno. Si sviluppa così un vivace contraddittorio, fatto di arguzie e provocazioni, riflessioni filosofiche ed erudizione storica, che non tarda a colorarsi delle tinte del mistero quando l’ospite, rivelando un dettaglio della sua vita, innesca involontariamente un piccolo o grande enigma alla cui soluzione si dedicheranno i sei… i sette Vedovi Neri”.
Ogni personaggio svolge un proprio lavoro e ha una sua caratteristica che lo distingue dagli altri: Rubin è uno scrittore di gialli alto un metro e sessantacinque, porta occhiali con due lenti spesse ed ha una barbetta rada che sembra vivere per conto suo; Halsted insegna matematica, è timido, interviene spesso in modo esitante ed è attirato dalle torte; Drake fa il chimico, fuma come una ciminiera, ha la voce bassa e roca; Avalon è avvocato, alto un metro e ottant’otto, il criticone dalle sopracciglia scure (anch’esse sembrano avere una vita propria come la barbetta di Rubin) che fuma la pipa; Gonzalo dipinge, sembra un “d’Artagnan tirato a lucido” con “la lunga chioma”, gli occhi grandi e un po’ sporgenti e disegna la caricatura degli ospiti, mentre Trumbull lavora per il governo come esperto di codici cifrati, arriva sempre in ritardo, è aggressivo con tutti. Per renderli vivi e veri ad Asimov basta un accenno, una lieve pennellata, un aggettivo o un verbo al posto giusto. Non c’è bisogno di tanti ghirigori come succede agli scrittori modesti.
Chi risolve i problemi dopo lunghe e spesso divertenti discussioni è però Henry, il cameriere dal “viso liscio malgrado i suoi sessant’anni”.
Gli argomenti che trattano sono i più disparati: in questo ultimo libro il problema di un crittogramma, di una frase o addirittura di una sola parola enigmatica, del ritrovamento di un luogo, di una abitazione, di stabilire una data sicura tra due possibili, di interpretare al meglio una data storica come le idi di aprile, di sapere da dove vengono di preciso gli extraterrestri, di come può sparire una donna rossa in un ristorante e così via.
Il tutto espresso con quella elegante, amabile, fine ironia propria dei grandi scrittori. Così Asimov chiosa l’ultimo racconto “Pochi dei miei racconti mi danno altrettanta soddisfazione di quelli dei Vedovi Neri, e l’averne scritti quasi una cinquantina non mi ha affatto stancato, né ha diminuito il piacere con cui le mie dita li creano alla macchina da scrivere. Non posso essere sicuro che i miei lettori siano altrettanto entusiasti, ma ovviamente lo spero”.
Speranza ben riposta. Almeno nel sottoscritto.
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