ioseCominciare ogni mese una nuova puntata della nostra rubrica è a volte difficile. Ho l'impressione di ripetere sempre le stesse cose, ma allo stesso tempo vorrei trovare le parole giusto per l'ospite prescelto. Perciò mi auguro che Giorgio Ballario mi perdonerà se, per presentare Morire è un attimo (libri/6641), il suo primo romanzo, non troverò parole particolarmente originali. Quello che è importante è che Giorgio è l'autore alla sua prima volta editoriale, ospite, per questo caldo mese di luglio, del nostro salotto letterario.
Ringraziandoti per aver accettato il mio invito, mi piacerebbe sapere, che effetto fa, a te che sei un giornalista e le domande sei abituato a farle, essere, per una volta, dall’altra parte del "microfono"?
E' curioso, per la prima volta non devo cercare di porre delle domande più o meno intelligenti, bensì stare attento a dare delle risposte sensate. E non è facile, ti assicuro.
Entriamo subito nel merito del tuo romanzo e, per introdurlo ai lettori, ti chiederei di provare a pensare un "trailer" per presentarlo.
Un trailer cinematografico? Beh, se fossi il regista farei una lunga panoramica sulla città di Massaua, sul porto in cui sbarcano truppe per l'imminente guerra con l'Abissinia e torme di avventurieri d'ogni genere, in cerca di fortuna. Poi farei un primo piano sul cadavere trovato decapitato, alternato alle espressioni del maggiore Morosini e dei suoi aiutanti Barbagallo e Tesfaghì. In sottofondo la voce narrante direbbe: "Eritrea, 1935. Mentre crescono le tensioni internazionali e l'Italia mussoliniana si prepara alla guerra con l'Abissinia, la città di Massaua è scossa da due omicidi efferati e misteriosi. I sospetti si concentrano sugli agenti del Negus etiopico Hailé Selassié, coinvolti nelle settimane precedenti in sanguinosi scontri di frontiera con le truppe italiane. Ma il maggiore Aldo Morosini, ufficiale dei reali carabinieri, non è per nulla convinto di questa versione di comodo. E cerca con testardaggine altre piste investigative". E poi farei vedere anche un dialogo romantico fra Morosini e Virginia… Già, perché oltre ai morti ammazzati, nel romanzo c'è pure una storia d’amore.
Già da queste poche righe vengono introdotti alcuni degli elementi chiave del romanzo. Prima di entrare nei dettagli, però, mi piacerebbe sapere da dove nasce l'idea di questa storia.
L'idea di scrivere un romanzo ambientato nell'Eritrea degli anni Trenta ha preso corpo parecchi anni fa, quando ho realizzato che l'Italia contemporanea non sa praticamente nulla dell’esperienza coloniale in Africa. Non solo in Eritrea, ma pure in Somalia, in Libia… Io stesso, prima di approfondire il tema, avevo delle idee piuttosto vaghe. Eppure basta parlare con amici, parenti o colleghi per scoprire che molti di noi hanno avuto un nonno o un vecchio zio che ha fatto "la guerra d'Africa". O magari che ci è andato in cerca di fortuna. Per molti anni l'Africa è stata un po' la nostra frontiera, il nostro Far-West. La Quarta sponda, come si diceva a quel tempo. Eppure pochissimi l'hanno scelta come cornice per un romanzo. Penso soprattutto per ragioni politiche, perché l'esperienza coloniale è stata associata tout court al fascismo e quindi rimossa.
La scelta è stata sicuramente impegnativa e immagino abbia richiesto un grande lavoro di ricerca e documentazione. Come ti sei mosso per avere tutte le informazioni che ti servivano?
Ci ho lavorato abbastanza, perché mi interessava ricostruire non solo i fatti storici dell'epoca, ma gli aspetti culturali e materiali, la vita quotidiana nelle Colonie e naturalmente un'adeguata cornice geografica e ambientale. Ho letto un po' di libri storici, ma soprattutto vecchi testi dell'epoca trovati sulle bancarelle dei libri usati. Sono state fondamentali un paio di guide del Touring Club degli anni Trenta, che mi hanno fornito informazioni dettagliatissime su qualsiasi aspetto: dalla topografia delle città alle notizie etnografiche sulle popolazioni locali, dalla flora alla fauna dell'Eritrea
In questo ti ha aiutato il tuo lavoro di giornalista?
Può darsi, anche se non ci ho mai pensato. Come tutte le professioni non specialistiche e ancora discretamente artigianali, il giornalismo ti insegna a fare un po' di tutto. E poi ti costringe a fare di necessità virtù, a sbrigartela in ogni campo: nel nostro ambiente si dice che il giornalista è colui che spiega agli altri quello che non ha capito neppure lui…
Parliamo per un attimo del protagonista di questa storia: chi è Aldo Morosini?
Un maggiore dei reali carabinieri, in servizio a Massaua. Al di là del ruolo, indispensabile per condurre le indagini, volevo farne un po' il simbolo positivo (a fronte di tanti esempi negativi) del militare e funzionario pubblico dell'epoca, che non è un super-eroe ma un uomo normale, scaraventato in un mondo completamente diverso dal suo. Pur non essendo un fascista convinto, Morosini crede nei valori della sua epoca: nella patria, nel ruolo dello Stato, nell'onore, nella famiglia. Però ci crede a modo suo, è disincantato, per certi versi anche deluso. Eppure rimane al suo posto, stoicamente e testardamente: anche quando gli verrebbe voglia di buttare tutto all'aria.
C'è una componente autobiografica nei tratti che hai dato a questo personaggio?
In linea di massima no. La storia è di fantasia e il personaggio del tutto inventato, anche se per entrambi ho cercato verosimiglianza e solide basi storiche. Al massimo può esserci qualcosa di autobiografico in alcune riflessioni esistenziali del protagonista. Sì, può essere: forse in Morosini ci ho messo qualcosetta di me.
Accanto a Morosini tante altre figure: uomini e donne, italiani e eritrei, ti va di delineare brevemente la "fauna" di cui hai popolato il tuo romanzo?
Per non svelare troppo, mi limiterei a tre personaggi importanti, che sono qualcosa di più che semplici comprimari del protagonista. Il maresciallo Barbagallo, fedele collaboratore del maggiore, carabiniere vecchio stampo, un tipo sempre allegro e ottimista che nelle intenzioni serve un po' a stemperare le atmosfere più cupe. Poi lo scium-basci Tesfaghì, cioè il sottufficiale indigeno taciturno e coraggioso, che rappresenta le migliaia e migliaia di eritrei che per molti anni hanno servito fedelmente nelle forze armate italiane. E che l'Italia, forse un po' frettolosamente, ha dimenticato. Infine Virginia, una bellissima attrice di varietà che aveva già avuto una lontana storia d'amore con il maggiore e che nel romanzo riappare all'improvviso a Massaua, in tournée con la sua compagnia. Destabilizzando un po’ la vita monotona del protagonista.
E ora parliamo di quella che secondo me è la protagonista femminile indiscussa di questo romanzo: l'Eritrea. L'ambientazione e i tratti con cui l'hai delineata sono, secondo me, la vera forza dell'opera. Una terra dura, ma anche estremamente affascinante, con cui lo stesso protagonista intesse un rapporto intenso di amore-odio.
Hai detto bene. Se Virginia è una comprimaria di lusso, l'Eritrea assume invece un ruolo di primo piano. Fondamentale. Una terra dura, aspra e affascinante, popolata da genti misteriose e agli occhi di noi occidentali dell'epoca (non dimentichiamo che siamo negli Anni Trenta) ancora quasi selvagge. Una vera frontiera per generazioni di italiani che a quei tempi, magari, non erano mai andati più in là del loro capoluogo di provincia. Una terra da amare, anche se il caldo non ti dà tregua e ti scopri a sognare il freddo e la nebbia della pianura padana… Infatti molti italiani ci sono rimasti, malgrado la sconfitta in guerra e le vicissitudini che la nostra ex colonia ha poi dovuto affrontare
Toglimi una curiosità, sicuramente conoscerai L'Ottava vibrazione, l'ultimo romanzo di Carlo Lucarelli, uscito poco prima del tuo e saprai che ci sono forti analogie che saltano agli occhi tra le due opere. Temi il confronto?
Non mi parlare di Lucarelli… Quando ho saputo che il suo ultimo romanzo sarebbe stato ambientato nell'Eritrea italiana, mi è preso un colpo, perché pensavo di aver trovato un'ambientazione assolutamente originale. Naturalmente ho letto L'ottava vibrazione, poche settimane prima che il mio romanzo uscisse in occasione della Fiera del Libro di Torino. Mi è piaciuto e ho notato con piacere le differenze, più che i punti in comune: il suo è un romanzo storico corale, una grande saga, più che un noir classico. E poi si svolge ai tempi della disfatta di Adua, quarant'anni prima rispetto al mio. Diciamo che, pur non essendo stato originale come speravo, ho intuito con un certo anticipo questa tendenza riesaminare l'esperienza coloniale italiana. Non dimentichiamo che un paio di mesi fa è uscito l'ultimo romanzo di Enrico Brizzi, ambientato in un'ipotetica Etiopia, ancora italiana, degli anni Sessanta. E che nelle edicole va forte un fumetto che si chiama Volto nascosto e tratta proprio il tema storico del colonialismo ai tempi di Adua. Quanto al confronto con Lucarelli, c'è poco da dire: usando una metafora calcistica, lui gioca in Champions League, io sono una squadra di provincia neopromossa in C1…
Quindi secondo te è in atto in questo periodo una riscoperta e una rivalutazione dell’esperienza coloniale del nostro paese, che fino a oggi è sempre stata vista come un momento fallimentare della storia italiana?
Non sono in grado di dire se ci sia un riscoperta e tanto meno una rivalutazione. E poi nessuno vuole rubare il mestiere agli storici. Anche se certe ricostruzioni a senso unico, tipo "i cattivi italiani fascisti che sono andati a depredare i poveri negretti" hanno stufato e francamente sono pure traballanti da un punto di vista storico. A me sembrava paradossale vedere autori italiani che ambientano i loro noir a New York piuttosto che nell'Arizona o in altri posti strani, e nessuno che pensava a una "location" come le colonie italiane in Africa, che permettono di fondere l'ambientazione esotica a un periodo storico che, oltre ad essere originale, appartiene a pieno titolo alla nostra storia. Quindi, al di là della piccola delusione personale per non essere arrivato primo, in definitiva sono contento che Lucarelli e Brizzi abbiano scelto l'Eritrea e l'Etiopia per i loro ultimi romanzi. Si vede che è il momento giusto per ripensare anche a questa parte del nostro passato.
Torniamo ora nel vivo di Morire è un attimo e andiamo ad affrontare una questione che mi ha lasciato qualche perplessità. Hai scelto di confrontarti con il genere giallo, un genere che pone regole e paletti molto precisi e di cui si è prodotto molto. Nel tuo romanzo ci sono tutti gli elementi chiave di questa scelta, ma personalmente ho trovato le dinamiche narrative più strettamente legate al genere la parte più debole del lavoro: poco fluide, un po’ scontate, a volte faticose…
In effetti me l'ha già fatto notare qualcun altro. E' possibile e accetto di buon grado le critiche degli esperti. La trama gialla a mio avviso è efficace, però riconosco che sia piuttosto lineare, non troppo intricata, forse con pochi colpi di scena. Al di là della mia effettiva inesperienza (pur essendo un grande lettore di gialli e noir), è in parte voluto. Da un lato intendevo rimanere il più possibile legato alla realtà, e da giornalista che ha seguito per molti anni la cronaca nera e giudiziaria ti posso assicurare che dietro il 99 per cento dei delitti ci sono dinamiche piuttosto semplici, per non dire elementari. E ancor di più le motivazioni, che anzi io riconduco solo a due grandi famiglie: l'interesse e la passione (che include anche l’odio politico, la gelosia, l'invidia etc etc.). Dall'altro lato, più letterario, personalmente non amo i gialli con intrecci sofisticatissimi, meccanismi costruiti a tavolino più che altro per sorprendere il lettore, magari con tranelli scientifici. Forse è un mio limite, ma nella scelta di un libro da leggere, all'intreccio prediligo sempre il personaggio e l'ambientazione. Insomma, fra Sherlock Holmes e Maigret scelgo il commissario francese, tutta la vita.
Ora facciamo una cosa un po' strana: parliamo per un attimo della fine. Nessun timore non intendo svelare nulla, però ho notato un particolare. Nonostante lo sviluppo della vicenda manca il classico "happy end", che forse sarebbe stato più consolatorio.
E' vero ed è una precisa scelta. Perché nella vita reale non esistono happy end, specie quando si affrontano temi come un'indagine per omicidio: anche se l'investigatore scopre il colpevole e lo assicura alla giustizia, nulla sarà mai più come prima. E poi, da un punto di vista più culturale, non amo i finali autoconsolatori all'americana, anche se da bambino adoravo i film di Frank Capra e ancor oggi mi emozionano. Ma in un romanzo non mi piacciono le divisioni manichee: i buoni da una parte, i cattivi dall'altra; con questi ultimi naturalmente destinati a soccombere. Il mondo non è in bianco e nero, talvolta è difficile distinguere il torto dalla ragione e Morosini lo sa molto bene.
Passiamo ora a un aspetto forse un po' più tecnico e meno letterario: tempi di stesura del romanzo?
Lunghissimi. Non ne sono certo, ma forse l'idea mi è venuta prima che a Lucarelli… In realtà ho lavorato in modo schizofrenico, come penso capiti a molti esordienti. Scrivevo un paio di capitoli e poi li lasciavo nel computer per sei mesi. Li riprendevo in mano e cominciavo a riscriverli. L'idea risale al 2002, ma poi il grosso del romanzo l'ho realizzato in un annetto, fra il 2006 e 2007.
E come sei arrivato alla pubblicazione?
Non avevo le idee chiare. Ho sottoposto il manoscritto a un paio di case editrici, una di Genova e l'altra della mia città, Torino, che aveva pubblicato il libro di un mio collega e amico. Non l'ho mandato in giro a editori più grandi perché non avevo voglia di stare per sei mesi/un anno in attesa di una risposta, che forse non sarebbe mai arrivata. Entrambe l'hanno trovato interessante, ma quelli delle Edizioni Angolo Manzoni si sono fatti vivi per primi con una proposta di contratto.
Sei soddisfatto del risultato?
In questi casi si dovrebbe rispondere che uno scrittore non deve mai accontentarsi, che deve sempre cercare di superarsi. Ma in realtà sì, sono soddisfatto. Non ho mai pensato di poter puntare al Nobel per la letteratura, né ho l'ambizione di realizzare "il" romanzo con la R maiuscola. Mi sono divertito a scrivere Morire è un attimo, così come si è divertita la maggior parte di chi lo ha letto finora. Per il momento mi basta.
E cosa suggeriresti di fare a chi ha un romanzo nel cassetto?
Per prima cosa tirarlo fuori dal cassetto e farlo leggere a tre o quattro persone di cui ci si fida, magari non alla mamma o alla fidanzata, che potrebbero essere influenzabili. E poi raccogliere i pareri, soprattutto i più severi, e farne tesoro. Solo in un secondo tempo, dopo le opportune revisioni, consiglio di mandarlo alle case editrici.
Infine, prova a convincere il pubblico a leggere il tuo romanzo: inventa uno slogan per presentarlo.
Malgrado a scuola non ce l'abbiano insegnato e in tivù non ce lo facciano vedere, anche l'Italia ha avuto la sua epopea della Frontiera.
E chiudiamo con la più classica delle domande: quali sono i tuoi progetti?.
Nel cassetto ho un altro noir già finito, questa volta contemporaneo, ambientato fra l'Italia e Creta. Gli sto ridando un'occhiata prima di proporlo a qualche editore. E poi sto già lavorando a una seconda inchiesta del maggiore Morosini, che ormai sta diventando come un vecchio amico.
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID