Scelto come uno dei film per celebrare i dieci anni dal passaggio di Hong Kong alla Cina, Mr Cinema di Samson Chiu è per molti versi un film sorprendente ed elusivo, immerso in una serie di contraddizioni difficilmente risolvibili ma che rispecchiano la realtà discordante e un po’ schizofrenica che il Porto Fragrante sta vivendo, all’apparenza Regione Amministrativa Speciale, e dunque territorio “altro” rispetto a tante altre città della terraferma prive della stessa eredità culturale britannica, ma nella sostanza sempre più vicina a un’idea di unificazione che, volente o nolente, diverrà realtà ineludibile nel 2046. La prima contraddizione espressa nel film è insita nella personalità del protagonista, il proiezionista Zhou Heung–Kong (un bravissimo Anthony Wong), il cui essere hongkonghese e allo stesso tempo comunista rappresenta un evidente ossimoro che lo rende paradossalmente controcorrente rispetto alla società che lo circonda. “Non hai mai vissuto a Hong Kong, ma io devo farlo”, gli dice a un certo punto il figlio Chong (Ronald Cheng, anche lui notevole), detto Lefty dagli amici proprio a causa del padre. Nell’opposizione padre-figlio, che è un po’ il perno attorno al quale il film è costruito, si cela un’altra forte contraddizione: se il primo è idealista e patriottico, interessato unicamente a mantenersi modesto e giusto (forse per questo ha chiamato il figlio “Chong”, ‘centro’), il secondo è disposto a tutto pur di far soldi e riscattarsi da una vita che lui vede come perdente, perché inspiegabile in un luogo come Hong Kong dove tutti pensano a fare affari, a imparare l’inglese e a vedere film di kung fu e fantasmi, non certo di propaganda “rossa” come quelli che il padre si ostina a proiettare nel cinema dove lavora. L’opposizione fra i due ha anche un preciso corrispettivo geografico: per Heung–Kong lo spazio in cui vivere è rappresentato da Piazza Tian An Men, luogo simbolo della grandezza del comunismo cinese. Per Chong, invece, il luogo perfetto in cui sostare e realizzare il proprio potenziale è l’aeroporto di Hong Kong, dal quale l’amica Min (Karen Mok) parte ripetutamente in cerca di fortuna. Ma questi luoghi apparentemente preposti a rappresentare una dimensione concreta sono in realtà evanescenti e inafferrabili. Allo spazio reale di una vita vissuta si sostituisce infatti uno spazio metaforico, un luogo di sogno rappresentato solo indirettamente e per allusioni: Tian An Men è soltanto una fotografia appesa al muro, un miraggio a cui Heung–Kong anela e che rimarrà tale anche quando, in pieno boom economico nella Cina-Eldorado degli anni 2000, tutti andranno a Pechino per vedere la piazza più grande del mondo con i propri occhi, tranne lui. Analogamente, l’aeroporto di Hong Kong è un semplice aeroplanino di carta che vola dietro una grata, barriera oltre la quale Chong non riesce mai a raggiungere l’amica Min, ogni volta in partenza verso un luogo diverso. Ironicamente, l’unica volta in cui Chong riuscirà a toccare quella partenza sarà nel 1998, il giorno prima della demolizione dell’aeroporto. Ma anche in questo caso, il ragazzo non vedrà nulla e rimarrà al di quà dello spazio di fuga, e il suo volo immaginario verso una vita diversa (una vita con Min, probabilmente), rimarrà un simbolo, stavolta raffigurato da un aeroplano di metallo. In questi spazi mancanti (e mancati) si genera un’estetica del desiderio che richiama molto quell’idea di “proximity without reciprocity” di cui parlava Ackbar Abbas a proposito del cinema di Wong Kar–Wai nel suo libro “Hong Kong. Culture and the Politics of Disappearance”, (Hong Kong University Press, 1997). Un ennesimo paradosso, dunque.
Ma Mr Cinema è per molti versi anche un film di propaganda, dove nel passare in rassegna gli avvenimenti chiave che hanno segnato la storia di Hong Kong (e della Cina) dal 1969 al 2007 colpisce l’assenza di un evento drammatico come quello del massacro del 4 giugno 1989, a Piazza Tian An Men (argomento tabù per le autorità cinesi). Eppure, l’alterità di Hong Kong emerge in particolari insignificanti come quello del partire senza mai incontrarsi se non di traverso o di sfuggita, evento tipico in una città di passaggio tra Oriente e Occidente, in cui tutti vanno senza mai fermarsi spingendo il futuro a svanire ancor prima di accadere. “Il futuro è nelle nostre mani”, la Cina filo-capitalista del dopo Deng Xiao Ping sembra gridare in ogni angolo del paese, ma è un futuro ibrido e ancora una volta paradossale, in cui Hong Kong può sopravvivere soltanto piegandosi alla potenza della “madre patria”: negli anni del boom economico, tutti i capi manager di Hong Kong sono in realtà della Mainland e gli stessi Chong e Min possono intravedere la promessa di un futuro trionfale soltanto abbandonando la loro città.
Nel ’97 Fruit Chan scongiurava l’handover con il durissimo Made in Hong Kong; dieci anni dopo, quell’atmosfera di terrore che accompagnava la certezza di “cadere” nelle mani della Cina (e che spinse molti a emigrare in America o in Europa, pur di evitare l’inevitabile) sembra improvvisamente scomparsa, nel nome di uno spirito di “chineseness” che ormai accomuna tutti, hongkonghesi e mainlanders, e che non a caso ha come emblema trionfale di vera unificazione una delle canzoni scelte come inno delle Olimpiadi 2008, “We are ready”, cantata dal simbolo per eccellenza del successo showbiz made in Hong Kong: Jackie Chan. In quel grido “siamo pronti” è senza dubbio racchiusa tutta la sete di conquista che anima la Cina intera nei confronti del resto del mondo, ma, in maniera forse ancor più subdola, quelle parole rivelano anche una pacifica e tacita accettazione da parte degli abitanti dell’ex colonia britannica dell’inevitabilità della Storia, che dopo aver illuso Hong Kong per ottant’anni facendola vivere da terra presa in prestito in un lasso di tempo anch’esso preso in prestito, l’ha restituita al mittente.
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