Frattanto, la voce del Preside si era fatta suadente, quasi supplicante: “ Via, Menotti… non infierisca più. E’ solo una povera donna sola. D’accordo, è un po’ inacidita ma le assicuro che non è una cattiva persona. Sa, la solitudine, a volte, rende, un po’ …come dire? Insofferenti, ombrosi e anche insopportabili. Ma lei mi capisce, Menotti, la vita non è stata generosa con la povera Spinelli e lei, che è uomo di mondo, deve capire e… compatire.”
“Già, bisogna compatire…” fece Santarosa di rimando. Ma il suo sguardo era ironico e un sorrisetto quasi crudele si dipinse agli angoli della sua bella bocca.
Olga entrò in sala professori. La professoressa Savelli, sua collega di corso, la salutò con un cenno fugace e svanì nel corridoio con il suo plico di compiti di storia dell’arte.
La stanza era deserta e un brivido percorse la schiena della Spinelli. Ma non era un brivido di freddo…
Si diresse come un automa verso il cassetto semi aperto di Santarosa. Lo spalancò e il sacchetto con la scatola di croccantini cadde a terra con un rumore metallico che risuonò come un lugubre presagio. Poi tirò fuori tre baci Perugina, che se ne stavano sul manuale di sintassi latina, in voluttuosa attesa di essere mangiati. Li prese con delicatezza e, tirata fuori dalla borsa una siringa da insulina, iniettò in fretta un liquido trasparente fra nocciola e nocciola.
In un attimo richiuse il cassetto e, afferrato il librone delle circolari, andò a sedersi sul divano, immergendosi in una lettura che non ammetteva distrazione.
E in quella posa statuaria e dignitosa la trovò Menotti, che senza degnarla di uno sguardo, si diresse, con passo trionfale, verso il suo cassetto.
Rimase un attimo perplesso trovandolo chiuso con la chiavina girata. Ma non ci fece caso più di tanto. Prese un bacio di cioccolata, lo scartò e se lo mise in bocca, assaporandolo sfacciatamente di fronte alla collega impietrita. Poi aprì il fogliolino e, come al solito, lesse ad alta voce; “E’ mi duol che ti convien morire per questa fiera donna, che niente par che pietate di te voglia udire…”
“Mah…” fece perplesso il professore “Che frase truce... Mi pare di averla già letta. Se non mi sbaglio è…” E qui si fece improvvisamente pallido e incominciò a sudare.
La Spinelli si alzò dal divano e, fissando nel vuoto, mormorò: “E’ il Cavalcanti, non lo riconosci, Menotti?”
Pochi istanti dopo, un medico del 118 si affannava nel vano tentativo di rianimare Santarosa.
Il professore giaceva esanime sul pavimento che la Mara aveva appena lucidato.
Mentre la sirena dell’ambulanza si allontanava sul lungomare, Olga si avviò lentamente verso le scale.
Dopo la prima rampa, il suo sguardo si posò, come sempre, sul volto esangue della povera Ippolita, che, trascinata nel baratro dall’amante, sembrava più stupita che paralizzata dal terrore.
“Eh sì, Menotti, non ti aspettavi nemmeno tu che l’amore avesse il sapore della morte …” sussurrò la Spinelli.
Per un attimo le sembrò che sulla tela il volto di Ippolita si confondesse con quello di un giovane pallido con la camicia rosa pastello.
Ma fu solo l’impressione di un istante perché, subito dopo, il piede di Olga incontrò il foulard di seta che Menotti aveva perso quando lo avevano portato via in barella. Il destino trovò una valida complice nella cera che Mara aveva scrupolosamente steso sul marmo e la professoressa Spinelli scivolò, rotolando per le scale, senza nemmeno un grido.
Prima di battere la testa sul ginocchio sinistro della statua di Guido Cavalcanti, che guardava sdegnoso dal pianerottolo del primo piano, fece appena in tempo a girarsi e a fissare il quadro che aveva sempre esercitato un lugubre fascino sulla sua fantasia di miope introversa.
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