Dopo la gita dello scorso mese al Salone del Libro di Torino e il relativo excursus nel mondo del fumetto, torniamo nel nostro salotto letterario virtuale, a ospitare un nuovo autore italiano, alla sua prima volta editoriale. Si tratta di Riccardo Arena, che con il suo Quello che veramente ami (libri/6493) esplora alcune sfumature della letteratura di genere. Non si tratta di un giallo o di un thriller, però, indaga alcune delle facce più nere della nostra storia recente.
Per prima cosa grazie Riccardo per aver accettato di essere ospite.
Grazie a te e a ThrillerMagazine per l'onore e lo spazio che date a un esordiente di 45 anni…
Se ti va, cominciamo introducendo il lettore nella tua opera. Se dovessi provare a riassumerla in poche immagini che ne esprimano la "chiave", che immagini useresti? O, per dirla in modo cinematografico, prova a costruire un "trailer" del tuo romanzo.
Non è facile per un deb: però proviamoci. Io comincerei (e finirei) il trailer con la Haka, la danza degli All Blacks, i fortissimi giocatori neozelandesi di rugby. Poi ci metterei la contestazione contro Luciano Lama alla Sapienza, gli scontri di Bologna che provocarono la morte di Francesco Lorusso, e in rapida successione i carri armati nel centro di Bologna, Roma ridotta a un campo di battaglia, gli omicidi dell'avvocato Fulvio Croce, dell'agente Settimio Passamonti, del vicebrigadiere Antonino Custra, di Giorgiana Masi. E tra una scena e l'altra metterei l'Angelo Biondo, il Casque d'Or Jean Pierre Rives, il giocatore di rugby francese di cui si diceva che mettesse la testa dove altri non osavano mettere i piedi. E due ragazzi, lui e lei, che litigano, urlano, si picchiano e però si abbracciano pure. E le bellissime campagne e il mare della provincia di Ragusa, che è al di sotto del parallelo di Tunisi. Da cui il soprannome del protagonista: Enrico detto il Tunisi.
E se volessimo trovare una definizione per il tuo romanzo, come lo definiresti?
Bella domanda. Non ne hai una di riserva? Scherzo… D'amore mi pare riduttivo, storico è forse esagerato, popolare non è, politico probabilmente impaurirebbe il lettore… È però, in fondo, un po' tutto questo, senza esserlo fino in fondo, perché racconta un pezzo della storia violenta del nostro Paese, partendo da una storia d'amore e di politica. Se vogliamo, è un romanzo impegnato atipico. Atipico come il protagonista. E come l'autore.
Tu fai il giornalista, l'ispirazione per la tua storia viene da questo lavoro? O invece l'idea viene da altrove?
L'idea viene da una storia vera. Nei ringraziamenti finali c'è un pensiero per due persone care, lui di destra, lei di sinistra, che a Milano fecero il '77 amandosi. Allora ci riuscirono; poi, quando finì tutto, finì anche il loro amore…
Quindi Enrico e Monica esistono? E quindi quanta parte di realtà c'è nel romanzo e quanta è invenzione letteraria?
Esistono ma non troppo. I "veri" Enrico e Monica non si sono affatto perduti nelle violenze degli anni '70, certamente non come i protagonisti. La storia parte da loro ma poi è tutta fantasia. Fantasia, ma dentro la cronaca, tragicamente vera, verissima, di quell'anno "magnifico e pieno di morti", come viene definito nel libro, che fu il '77.
Visto che li abbiamo introdotti, parliamo dei personaggi. Chi è Enrico Corolla, detto il Tunisi?
È un figlio del popolo, un proletario vero, figlio di una famiglia piccolo borghese che non nuota nell'oro ma che fa della dignità e della obbligata sobrietà (tipica di quell'epoca) uno stile di vita. È un ragazzo di altri tempi, un sognatore, un romantico, un generoso, uno che – come tanti altri ragazzi di allora e di sempre – è pronto a dare l'anima per chi ama e per "quello che veramente ama". Come fa a essere fascista, uno così, mi potresti chiedere. Ma siccome non me l'hai chiesto, non rispondo. Rispondo nel libro, più di una volta.
L'altro personaggio maschile che, in un certo senso rappresenta l'altra faccia della medaglia di Enrico, è suo padre Vittorio Corolla. Un personaggio combattuto, estremamente affascinante, dai lati ombrosi eppure, allo stesso tempo, capace di grandi amori. Un personaggio che rappresenta in sé l'emblema della lotta generazionale… In poche parole: chi è Vittorio Corolla?
Un deluso, un offeso, un emarginato che non accetta di essere messo nell'angolo. Più ancora che nelle scene in cui affronta Enrico e meglio che nel dialogo con Monica, la sua figura – credo – si staglia quando alla stazione insiste per portare lui, che cammina con una gamba di legno, la valigia del figlio. È un personaggio ostinato, tenace, che considera "diversi", menomati, mutilati gli altri, coloro che non hanno avuto il coraggio di affrontare conseguenze estreme per portare avanti le idee in cui si crede. E al tempo stesso, però, è un disilluso.
Quindi si può dire che Enrico raccoglie l'eredità del padre, sia nell'ideologia politica, che nel suo essere "combattente", eppure i due personaggi sono davvero molto diversi, sono agli opposti, pur facendo parte entrambi della stessa corrente politica. Qual è la differenza sostanziale tra i due?
Proprio quella cui accennavo poc'anzi: la disillusione. Vittorio ha perso la guerra, sa che non potrà né vorrà farne un'altra, è rassegnato, non accetta la sconfitta e neppure tollera che Enrico vada a cacciarsi in una guerra che non c'è, eppure si vede. Vittorio si incazza perché il figlio fa di tutto per imitarlo e per perdere, anche lui, un conflitto rischiosissimo e dagli esiti scontati: l'emarginazione dalla società o la morte.
Legato al discorso del passaggio generazionale, in un momento particolarmente drammatico della vicenda, Enrico si confessa a Monica con questa frase: "Non siamo cattivi, non eravamo cattivi. Non credere all'equazione fascista uguale criminale [...] Siamo rimasti vittime di un miraggio, di una speranza, di un'idea che non era, non poteva essere la nostra idea. Forse era quella dei nostri padri. In realtà ci siamo innamorati della loro sconfitta e abbiamo cercato di riscattarla, senza renderci conto dell'assurdità della guerra che stavamo, che stiamo combattendo". Secondo me è, insieme alla scena del concerto, uno dei passaggi più belli del romanzo e rappresenta la presa di coscienza, da parte di questo ragazzo, del fatto che la sua è una guerra inutile, che l'idea per cui combatte non è più la sua. Ma come si riesce a capire quando un'idea è morta e a chi è appartenuta?
È difficile capirlo ancora oggi, figuriamoci negli anni '70, in cui, come sottolinea Giovanni Bianconi nella prefazione, gli echi della guerra e della Resistenza erano molto più vivi. Sono convinto che le idee siano ciò che muove il mondo (espressione che prendo a prestito da un'opera di Pino Rauti) e che quindi non muoiano, ma che sia nell'ordine delle cose che possano cambiare. Secondo me un'idea deve cambiare quando ne subentra una nuova, più forte e veramente rivoluzionaria: l'idea secondo cui continuare a combattersi non ha più senso, se si capisce che unendosi e lavorando assieme, rinunciando a un pezzettino ciascuno dei propri giudizi e pregiudizi, si può costruire qualcosa di buono. Io sono cresciuto in un'era inzuppata da quella che spesso diventava la (per me, e non solo per me, intollerabile) retorica, fascista o antifascista. Vuota, specialmente la seconda, se a impadronirsene erano i ladroni della Prima Repubblica, che sbandierandola ai quattro venti pensavano di potere emendarsi. Nel tempo ho maturato un crescente rispetto per i valori della Resistenza. Però sarebbe giusto che si smettesse di parlare di "ragazzi che combatterono dalla parte sbagliata", riferito ai soldati di Salò. Quando qualcuno ci prova, da Fini a Violante, passando per Pansa e Alberto Bevilacqua, viene tacciato di revisionismo e si cerca di metterlo a tacere. Bollandolo magari come fascista. E se qualcuno ha mai letto – ad esempio – Giampaolo Pansa, dagli anni '70 a oggi, sa quanto questa definizione sia una balla clamorosa.
E allora mi chiedo: come mai, se i cosiddetti Anni di Piombo sono finiti e le ideologie per cui si combatteva sono morte con loro, la storia che racconti, proprio in questi giorni è estremamente attuale? Basti pensare ai fatti avvenuti a Roma nelle ultime settimane…
Ci sono sempre stati quelli che preferiscono non ascoltare gli altri e cercare la prevaricazione fine a se stessa. Poi, se le estreme non sono rappresentate in Parlamento, dalla politica ufficiale, i rischi aumentano. Io credo che i ragazzi che non fanno parlare gli altri, dal Papa (minchia!, consentimelo…) a coloro che vogliono dire qualcosa sulle foibe (per quanto possa fare antipatia e non abbia titolo a farlo Forza Nuova) abbiano la stessa forma mentis degli ultras del calcio: in fondo, alla partita di pallone (rotondo: con quello ovale 'ste cose non succedono) che bisogno c'è di avere per lo mezzo i tifosi avversari? Si eliminano e basta. Follia è quella del calcio, doppia follia è tutto questo, se lo si traduce anche in politica.
Come abbiamo già accennato, una forte componente del romanzo è l'amore tormentato tra il Tunisi, fascista, e Monica, giovane compagna. La loro storia è l'emblema del fatto che l’amore può arrivare oltre le ideologie?
È una metafora, questo amore. È l'amore passionale, viscerale, fisico, intenso, a tratti – qualcuno mi rimprovera – sdolcinato (ma quale amore non lo è?) che è pure tormentato, se non proprio impossibile. È la metafora dell'amore tra gli estremi che si toccano, tra gli "opposti estremismi" che hanno fatto la fortuna, per anni, dei convergenti centrismi, ieri di Dc, Psi e Pci, oggi di Pdl e Pd, con qualche giro di valzer concesso anche alla Lega. Mentre le estreme stanno fuori dal Parlamento. Esattamente come avveniva negli anni '70. Se non è un pericolo questo…
Permettimi adesso di divertirmi con una domanda che sembra fine a se stessa, ma che invece, secondo me, aiuta a capire un po' meglio alcuni aspetti dei personaggi principali. Secondo te Monica è più comunista di quanto Enrico sia fascista?
Monica è una ragazza che soffre, che riesce ad amare tantissimo proprio perché ha una vita strana, fatta di contrasti con i familiari e con gli stessi compagni, con il suo ex ragazzo, Carlo, che la perseguita perché la adora... Comunista lo è certamente: non è invece dura né pura, come credeva di essere fino a quando non si scioglie di fronte a un "fascio di merda" come il Tunisi. E poi Enrico, sì, è un fascista atipico, ma in fondo un pochino lo è.
Un altro aspetto che mi ha colpito del tuo romanzo, che a tratti raggiunge un'intensità emotiva molto coinvolgente, è l'utilizzo, su un'ambientazione molto definita che è quella della Milano degli Anni di piombo, con le sue lotte e le sue stragi, di alcuni elementi che spiccano, perché si distinguono, quasi a diventare emblema di altro. Un esempio è il rugby. Anche nei momenti di maggior tensione il rugby rappresenta l'unico momento in cui la politica viene messa da parte, in funzione di un "codice d'onore" più elevato.
Centrato. Ma il rugby è al di sopra di tutto questo, è una filosofia, è religione, è stile di vita. È più importante della politica, dei nazionalismi, delle ideologie e delle razze. Oltre al trailer, se da Quello che veramente ami si dovesse ricavare un film, lo comincerei e lo finirei con la Haka degli All Blacks, i mitici maori (e bianchi) neozelandesi: è la danza che scandisce alcuni momenti topici del romanzo. Come ricorda Lirio Abbate nella postfazione, questo sport ha unito l'Irlanda dilaniata dagli odiati inglesi e dall'Ira, il Sudafrica dell'apartheid, attorno a regole a volte oscure, ma su cui prevale sempre il rispetto dell'avversario e del codice d'onore. Ecco perché rossi e neri magari si scannano in allenamento, ma in campo, con la divisa verde dell'Irlanda (scelta non a caso) sono tutti per uno, uno per tutti.
E che attori ci vedresti a interpretare il film tratto dal tuo romanzo?
Bedda matri, quanto corri… Però non voglio essere scortese. Aspetta. Per la protagonista femminile ho una rosa di bellissime e bravissime, dagli occhi chiari come Monica: Cristiana Capotondi, Violante Placido, Giovanna Mezzogiorno, Alba Rohrwachter. Il protagonista maschile? Luca Argentero, Giovanni Briguglia, Alessio Boni. O qualche straniero. Mi piacerebbe che ci fossero anche tre attrici bravissime: Maya Sansa (una Monica perfetta, ma ha gli occhi scuri), Monica Bellucci (lei è un po' più grande di Monica), Isabella Ragonese (troppo sicula, ma fenomenale in Tutta la vita davanti). Per la partita di rugby mi piacerebbe che scendessero in campo i giocatori veri della nazionale italiana: Marco e Mirko Bergamasco, Totò Perugini, il Barone Andrea Lo Cicero, che potrebbe essere il capitano, "Papà Benny". Per la parte del padre penso a Lando Buzzanca, per il professore a Nando Gazzolo. Visto? Ho tutto il cast. Ora trovami il regista e il produttore.
Mi metto al lavoro, dunque... Ma torniamo a noi: un altro simbolo forte è il gelso. Il gelso che ricorda la Sicilia, il gelso dell'infanzia, il gelso che Enrico disegna. Cosa rappresenta questa pianta?
La storia familiare, la tradizione, le radici. È un po' l'effetto Kunta Kinte, è il nespolo dei Malavoglia, è la camera di meditazione e di contemplazione di bellezze naturali e perdute per effetto della cosiddetta "civiltà". È il posto in cima al quale tutti sogniamo, almeno una volta nella vita, di potere stare, per goderci dall'alto un panorama bellissimo.
L'unica cosa che non mi ha convinto del tuo romanzo è una scelta strutturale, che mi è parsa un po' ingenua: il flash back. Perché l'utilizzo di questo elemento?
Forse perché nella struttura originaria di tanti anni fa (1985-'86 o giù di lì) il mio romanzo era nato così, come storia raccontata al compagno di cella. Però nel tempo è diventata una scelta e infatti, rispetto al manoscritto originario, è una delle poche cose che si sono salvate. Il flash back serve, nel caso di Enrico il Tunisi, a presentarti il risultato finale: uno che si è rovinato la vita negli anni di piombo e che però, nello scorrere della storia, appare troppo buono, troppo pezzo di pane. E allora – credo – chi legge si chiede: ma perché questo bonaccione si fa 15 anni di galera? È forse una delle leve che spingono non solo a leggere tutte e 250 pagine, ma anche a leggerle velocemente. In molti mi hanno detto di avere finito in due, tre giorni. E non credo che ciò avvenga perché il mio sia un romanzo "leggero", "acqua fresca". O almeno...lo spero!
Qui affrontiamo un altro aspetto interessante. Se ho capito bene hai cominciato a scrivere questo romanzo circa venti anni fa, giusto? Quindi ha avuto tempi di stesura lunghissimi.
Lunghi, sì, ma in fondo non troppo. In effetti cominciai nel 1985-'86, ma solo nell'89-'90 la mia eroica fidanzata copiò (per ben due volte) il manoscritto, nel senso che era proprio steso con la biro. L'allora Sole senza scacchi (era questo il titolo originario) finì in un file, in un floppy, e dormì in un cassetto per anni, tra sporadici risvegli, fino all'estate del 2006, quando iniziai a riscriverlo di sana pianta. Ci ho lavorato fino a dieci giorni prima della stampa. E se non l'avessero stampato, avrei proseguito. Sono un eterno indeciso.
E quale è stata la svolta che ti ha portato alla pubblicazione? Come ci sei arrivato?
Dopo anni di macerazione interiore, perché pubblicare è spogliarsi ed esporsi ignudi. Se ce l'ho fatta è merito di due persone: mia moglie, che mi ha spinto sin da quando era la mia fidanzata, e un collega, Filippo D'Arpa, il primo che, familiari a parte, ha letto il manoscritto e l'ha trovato non ottimo ma discreto, non pubblicabile ma migliorabile. Per tutta gratitudine, non l'ho ringraziato per iscritto. Spero in una ristampa per rimediare alla paurosa dimenticanza.
E come sei arrivato a Dario Flaccovio? Sei soddisfatto del risultato?
Ho proposto il manoscritto, col titolo che ti accennavo prima, Il sole senza scacchi, ad alcune case editrici, che o non lo hanno letto (una mi ha risposto dicendomi che non faceva per loro dopo 10 giorni, tempi di spedizione compresi: un record) o lo hanno scartato o non hanno risposto. Una, veramente importante, lo ha fatto a malincuore: mi ha scritto una lettera il "capo dei capi" dei lettori e ho capito che non hanno voluto rischiare. Sapevo bene che non si trattava di un prodotto finito, volevo l'aiuto di un editor bravo per trasformare la mia "opera" in un libro. La piccola casa editrice Dario Flaccovio ci ha creduto, mi ha messo nelle mani di una editor bravissima. Certo, ora che si va sul mercato scontiamo il fatto di non essere Mondadori o Rizzoli. Ma io ci credo. So che c'è ancora molto da fare e spero che il supporto dell'editore non venga mai meno.
Visto che è stata tirata in causa direttamente, e che è un piacevole ritorno su queste pagine, sentiamo anche la voce della Flaccovio, nella persona di Raffaella Catalano. Come è stato lavorare a questo romanzo?
A questo romanzo abbiamo lavorato in due, oltre all'autore: io e Alessandra Buccheri, che per un periodo ha collaborato con la casa editrice. Io ho scelto il romanzo, perché mi ha conquistata subito, fin dall'incipit, che trovo molto bello, coinvolgente. Poi ho dato all'autore dei suggerimenti di massima per lavorare sul testo che, come spesso accade per le opere prime che passano fra le mie mani, era un po' lungo. Quindi ho consigliato qualche taglio. Riccardo ha fatto un intervento preliminare e dopo, per il resto dell'editing, lo ha seguito Alessandra.
Sei soddisfatta del risultato?
Sono molto contenta. Il risultato di questo lavoro di squadra mi soddisfa. E poi, conosco Riccardo da molti anni, in veste di cronista di giudiziaria, ma scoprirlo scrittore è stata una bella sorpresa.
Oggi l'offerta editoriale è molto vasta: qual è, Riccardo, un buon motivo per leggere Quello che veramente ami?
Perché si è stati o si è giovani, perché si è o si sarà vecchi. Perché Quello che veramente ami (il titolo è tratto da un verso di Ezra Pound) va oltre le ideologie, non è un libro fascista e piace a fascisti e comunisti, sempre ammesso che si possa parlare ancor oggi di fasci e compagni. Più che un libro, è uno spunto di riflessione per tutti, anziani e non, ragazzi di oggi e ragazzi di ieri, persone mature ed eterni Peter Pan, iscritti a Forza Italia e a Rifondazione. Credo che sia un libro che ha un pregio, se a un autore è consentito dirlo: e lo dico perché tutti i miei (venticinque…) lettori me lo ripetono, che li emoziona dall'inizio alla fine, che fa piangere (e ridere) uomini e donne, che attraverso sensazioni ed emozioni riporta a giorni più o meno belli, alla voglia di fare, di esserci, di non stare sopra un albero per essere liberi, come cantava Gaber. Lo stesso grande autore che diceva che c'è solo la strada, su cui puoi contare, che la strada è l'unica salvezza… E sfido chiunque a dire che Gaber era un fascio o un autonomo.
E infine,ringraziandoti per la disponibilità, chiudiamo con la più classica delle domande: progetti?
Certo. Cambiare vita e fare il romanziere... Scherzo! Comunque un paio di idee ce le ho. Ma nell'immediato ho un sogno: vorrei portare in un'aula della Sapienza non dico il Papa perché chi deve farlo gli chieda scusa, ma i compagni dei centri sociali e i camerati duri e puri (purché non beceri, come purtroppo può capitare che ce ne siano, sia a destra che a sinistra) e fargli fare assieme la rivoluzione. Come? Facendoli confrontare e parlare tra di loro, per una volta. E magari non solo per il minuto di orologio concesso dagli autonomi a Enrico detto il Tunisi.
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