Mi chiamo Fino Carciofo, ma tutti mi chiamano Carciofino, che fantasia. Devo il mio nome al nonno, al papà di mio padre, anche lui si chiamava Fino, e anche lui lo chiamavano Carciofino. Pure suo nonno portava 'sta condanna, e il nonno di suo nonno.

Una malattia ereditaria.

Io non ho figli, ma se ne dovessi avere, non me la sentirei di rompere la tradizione, come dire le colpe dei padri ricadono sui figli.

 

A volte questo mio soprannome può essere imbarazzante, specie nel mio mestiere: lo sbirro. Dico, non è difficile immaginare l'imbarazzo che può provare uno come me, un cristone alto e grosso che viene chiamato Carciofino, davanti agli arrestati, per strada, mentre è in corso un intervento o un servizio. Oppure in ufficio, quando nei corridoi si sente: Carciofino, ti vuole il Dirigente!

Ma che ci posso fare, è ormai parte di me, e non posso liberarmene. È il mio marchio indelebile, nessuno mi chiama mai Fino, lo faceva solo la Professoressa di latino, al liceo, ma lei era una signora assai compita e elegante, e credo che il carciofo le facesse pensare a qualche cosa del tipo: organo sessuale maschile.

E in fondo, se qualcuno mi chiamasse Uè, Fino! Credo proprio che neanche mi girerei.

È come un tatuaggio.

 

C'è un'altra cosa, insieme al nomignolo, che mi rende unico, riconoscibile. È il mio vespino.

Ah!

Un vespino giallo lucido lucido, bellissimo, immacolato, come appena uscito dalla fabbrica. Solo qualche piccolo intervento, per verità: sellino primavera; marmittino sport; carburatore 125; luci allargate, leggermente; l'adesivo della linguaccia di Micky Jagger; e il tizio che fuma la canna, qualcuno dice che è Jim Morrison, ma io non credo che sia lui, anzi non è lui, e se anche fosse lui, preferisco sempre quello in cui Jim ha in testa la corona di spine (questo adesivo non l'ho mai messo, non so manco io perché, non l'ho mai capito).

Il mio vespino è la mia passione. Lo curo, lo lavo, lo  guardo, gli parlo, lo carezzo, come un cucciolo. Come il cucciolo che non ho mai avuto.

Ha sedici anni, ma ne dimostra sei, o sette. Alla Mobile mi sentono arrivare almeno da cento metri prima, e quando sentono il rombo della mia vespa, alzano la sbarra e mi fanno il saluto At ... tenti!

Solo una volta è successo che non hanno alzato la sbarra, c'era un collega nuovo, e lo smontante non gli aveva passato le consegne, cioè che alle sette e quarantacinque arrivo io, sparato come un fulmine.

Minchia spavento ...

Non lo so com'è che non mi sono schiantato su quella cazzo di sbarra. Boh! Forse San Piaggio, o chi per lui, si è messo in mezzo, e ha inchiodato i freni, ha stretto le ganasce in una morsa d'acciaio, o... forse una intera genie di carciofini ha deciso che la catena dei carciofi di famiglia non si dovesse fermare con me...

Fatto sta che ce l'ho fatta. Mi sono fermato che lo scudo sfiorava appena la suddetta sbarra, leggermente pallido e seriamente incazzato.

Ho trentatré anni, sono in polizia da sette e alla Squadra Mobile da sei. Sono alla Sezione Narcotici, e mi piace il mio lavoro. Sto sempre in giro, sono autonomo, mi muovo come mi pare per la città.

Ho un vero fiuto per la roba, un drago. La scovo dappertutto, se c'è, la trovo è il mio slogan, e ormai i tossici lo sanno e pure i pusher, che quando mi vedono passare gli si strizza il culo. Anche se ormai faccio poca piazza, perché da quando ho fatto il corso da Agente Sottocopertura, il lavoro si è orientato verso il Traffico, piuttosto che lo spaccio minuto.

Non so come mai possiedo tanto naso per gli stupefacenti. O forse si.

Sì, insomma, non ho sempre fatto lo sbirro. Neanche il pusher. Qualche canna, qualche grammo di erba o di fumo, tutt'al più. Quella roba lì mi è passata per le mani, nella mia altra vita, lo confesso.

Ma erano anni diversi, e diverso ero anche io. Fumavamo tutti, era un modo di essere, forse un gioco, ma un gioco innocente. Ci vedevamo a casa di qualcuno, una pizza, un paio di birre e... giummitello, dischi, Pink Floyd, Hendrix, Doors, Zappa, e cose del genere, molto psichedeliche e veramente da flippo.

Ogni tanto io e il mio compare facevamo sgami un po' più grossi e ci rifacevamo della spesa vendendo qualche stecchetta agli amici, o ai colleghi all'università. A quelli più fessi rifilavamo pacchi di sbriciolo spacciandolo (è il caso di dirlo) per erba delle migliori, Oh!... Vedi che questa viene diretta diretta dalla Giamaica!

Cose così, che hanno fatto tutti, o molti.

Ho smesso di fumare un paio di anni prima di entrare in Polizia.

Avevo deciso di fare lo sbirro e volevo arrivarci pulito pulito, e non solo nel sangue, soprattutto nella testa.

 

Ricordo che una volta ero in sella al mio vespino giallo, filavo come un dannato, avevo fatto uno sgametto per il Sabato e volevo arrivare a casa senza danni. Quando popi popi, minchia una sirena, alle mie spalle, e chiamava me.

Cazzo! Ho pensato, è fatta! Mi volto e vedo un'Alfasud color nocciola e uno che mi fa cenno di accostare.

- Carciofino! - Era Spartaco, un poliziotto che somigliava tutto a Kirk Douglas, era uno famoso, e io lo conoscevo bene perché faceva servizio davanti al mio liceo, quando andavo a scuola, tutti i giorni: all'entrata; a ricreazione; all'uscita. Si piazzavano là lui e il suo collega, con la loro bella Alfasud, e controllavano che noi ragazzetti indisciplinati non combinassimo minchiate, almeno non troppo grosse. Lui sapeva che io avevo intenzione di fare lo sbirro, che questa idea me la porto dietro da sempre, così mi guardò con quei suoi occhi azzurri che ti scavavano dentro, e mi disse:

- Carciofino, sempre il poliziotto vuoi fare?

- Certo, che discorsi! - Mi tremava un po' la voce.

- E allora...

- E allora, cosa?

- Allora allora.

- ...

- Vabboh, Carciofino, mi raccomando a te, e non ti divertire troppo.

Se ne andò, lasciandomi lì come un coglione. La stecchetta di fumo che mi pesava in tasca come il mondo intero, e una paranoia da elefante.

Fu allora che smisi di fumare, definitivamente. Uno o due anni dopo che ero entrato in Polizia, lo incontrai a Spartaco, davanti alla Questura. I capelli più bianchi, ma gli occhi più svegli che mai. Così ce l'hai fatta. Mi disse. Complimenti, diventerai un bravo poliziotto, ne sono sicuro. Auguri e buona caccia.

 

Comunque.

Avevamo in piedi un bel servizio in quei giorni.

Ero riuscito ad agganciare un tizio e tramite lui ero entrato in contatto con una organizzazione specializzata  nel traffico e lo smercio di pasticche fuori e dentro le discoteche.

Tra l'altro, proprio in quel periodo si faceva un gran parlare di ecstasy e trip di vario genere, causa le morti di un paio di giovani, e un furioso tam tam di tutti gli organi di informazione.

Anche il Questore si era incarognito, e voleva risultati, subito!, al solito suo.

Sono col funzionario, ora.

Siamo seduti nel suo ufficio, abbiamo ascoltato un paio di telefonate e pare che le cose si stiano mettendo per il verso giusto. Pare che siamo riusciti ad accreditarci con il primo acquisto simulato di circa mille pasticche.

Ora dobbiamo muoverci per il colpo grosso: l'incontro con il capoccia e la fornitura di diecimila pillole di ecstasy.

Stiamo fumando.

E a me viene sempre un po' da ridere quando il dottore si accende una sigaretta. Lui fuma sigarette assurde, tipo Capri, di quelle bianche, sottilissime e lunghe. Mi viene da ridere perché il Capo è un pezzo d'uomo che non finisce mai, una specie di orso bruno con un barbone foltissimo e le mani da operaio di acciaieria, uno come lui lo vedresti fumare piuttosto sigari, o Camel senza filtro o MS morbide, sigarette per corna dure cioè.

Trattengo, quindi, il riso e sto per accendere una delle mie Marlboro, quando squilla il telefonino.

Guardo il display, è il numero del mio contatto.

Faccio un segno al Capo e rispondo.

- Ehilà! Disgraziato, che si dice?

- A posto.

- A posto? E meglio così.

- Tu, come vai?

- Così, a posto pure io.

- Senti, per il discorso di là, io vedi che ci ho parlato ...

- Uhm ...

- E lui mi ha detto che è buono se vi conoscete, dice che ti vuole stringere la mano lui, di persona.

- Eh! ... E che mi vieni a raccontare, piglia e viene lui.

- Nonsi! Lui dice che tu ci devi andare da lui, che lui si muove solo per cose particolari.

- Sentimi a me, che ti pare che c'hai a che fare con ragazzini? Perché se ti pare che c'hai a che fare con ragazzini, allora non se ne fa niente che già 'sta storia mi ha cacato la minchia, con rispetto parlando!!

- No, ma non sono io che faccio obiezioni, è lui. Tu lo devi capire, lui non ti conosce, e con tutti i mali discorsi che si sentono in giro l'amico vuole stare tranquillo.

- E che fa tu a me non mi conosci? Comunque, sentimi nel mio discorso: io 'sta scappata là fuori, dov'è che sta lui, ce la faccio. Però appena ci stringiamo la mano, soldi io, cose lui e ognuno per i fatti suoi. Mi segui nelle mie parole?

- Vabboh! A posto allora. Senti, partiamo domani sera con la nave, arriviamo, fissiamo l'incontro e in serata risolviamo i discorsi e vediamo che si deve fare.

- Fammi sapere domani.

Spiego tutto al dottore.

Organizziamo per benino ogni cosa.

 

Torno a casa, sul mio vespino.

Guizzo nel traffico.

Un'anguilla.

Sono capace, siamo capaci io e Giallino, di evoluzioni impossibili.

Scarto a destra, sfreccio a sinistra, mi fermo quasi sui paraurti, scanso sportelli che si aprono.

Un acrobata.

L'indomani sera mi presento all'appuntamento con una macchina noleggiata apposta, imbottita di microspie.

Parte dei colleghi si sono mossi la sera prima.

Altri si imbarcheranno con noi.

Il mio contatto è lì, pronto e sorridente. Mi sta sul cazzo da matti, ma ha buoni agganci e non ha capito niente di chi  sono io.

 

Partiamo.

La traversata è tranquilla.

Il contatto si sbronza di birra e si cala una pilloletta.

Vomita, il coglione.

Mi tocca aiutarlo.

Lo prenderei a calci, altro che aiutarlo a vomitare.

 

Arriviamo, sani e salvi.

Ci mettiamo in movimento, lascio che sia lui a guidare.

Pigliamo un paio di traverse, giriamo un po', lo fa sempre, dice che è per gli sbirri, chissà dovessero seguirci. Lo stronzo. Io già i miei li ho visti almeno tre volte.

A un certo punto si mette a girare in tondo.

- Che hai? - Gli chiedo.

- Niente, è che mi sono confuso, e mi sa che ho sbagliato strada. Aspetta, che glielo domandiamo a quel tizio lì.

Allungo lo sguardo sul tizio.

Staminchia!

È Totò, uno dei miei colleghi. È fermo sul lato destro della strada, accanto l'auto di servizio, un'auto civetta, si stiracchia.

Mi viene da ridere, per non piangere, appena lo sente parlare sgama e tutto finisce a puttane.

Ci affianchiamo all'auto.

Mi sporgo in avanti, incrocio lo sguardo di Lilla, la collega specializzata in ascolto ambientale, ha il cappellino calato sulle orecchie, a coprire le cuffie, è lei che sta ascoltando in diretta le nostre conversazioni.

Le sorrido.

Lei ha lo sguardo smarrito, si volta verso il collega che intanto è rimasto lì come un fesso le braccia stese dietro la  schiena, la faccia persa come dire e ora?!

Fortuna che non si vede la pistola.

Lilla ha abbassato le mani, immagino sulle gambe, immagino sulla pistola, guarda verso me di tre quarti.

Io sorrido ancora. Sudo freddo.

- Chiedo scusa, la via Correggia?

Totò lo guarda, allarga le braccia, Boh!, fa con una faccia da pesce lesso assurda.

Il contatto si rimette in movimento. Accidenti, dice, con tutte le persone che c'erano, l'unico testa di minchia l'abbiamo trovato noi?!. Ride, non ha capito niente, rido anch'io, mi sa che il vero e unico pirla è lui.

Insomma, dopo qualche evoluzione, e il mio invecchiamento precoce, giungiamo a destinazione. Il contatto fa le presentazioni.

- Luigino, questo è Leo, l'amico mio che ti dicevo, quello interessato all'acquisto di quelle cose lì. - Inutile dire che Leo sono io.

- Ua... - Dice Luigino, che è piccolo e velenoso, il viso butterato, sfregiato. Acne o coltellate? - Leo, dimme 'na cosa, Leo, da dove vieni?

- Lo sai da dove vengo: dal paese Soldi. E tu abiti nella città Mercé? - Dico.

- Ua... - Ripete con un tono antipaticissimo e preoccupante. - E dimme 'na cosa, chi conosci al tuo paese?

- Chi conosco io? Perché non mi dici chi conosci tu, al mio paese, che io non conosco a nessuno. - Con certe per­sone non bisogna farsi vedere troppo pronti a rispondere alle loro domande, che appena ti chiedono una cosa rispondi. Assolutamente no, meno si dice e meglio è, il motto imperativo è: la migliore parola è quella che non si dice.

- Ua... - Ancora. - Agg'capito, Leo. Quanto tieni?

- Ho quello che mi serve, fai un po' il calcolo, 10.000 pillole per 5.000 £. Ma lo scambio, considerato che tu vuoi sapere chi conosco io, e da dove vengo, e tutti' sti discorsi qua che mi stanno spaccando le palle, a questo punto, se ti conviene, si fa al paese mio, che io non ti ho chiesto chi sei e cosa fai, e tutte queste domande mi fanno sentire puzza di dottore. Mi sono spiegato? Facciamo così, ci vediamo dopodomani mattina al porto, giù da me, ticchiti e tacchete e finisce lì. - Ho detto in un fiato. Il mio intento era di fare vedere che non ero un fesso, e allo stesso tempo di portarlo su un terreno a me favorevole.

- Senti nu poco...

- No. - Dico. - Risposta ora o niente!

Si prende qualche istante, interminabile. Si tocca il  mento, fa scorrere un dito lungo una delle cicatrici che gli solcano il viso, intanto mi guarda fisso negli occhi.

Reggo lo sguardo. Ma quando si decide a rispondere sono sfinito.

- Vabbuò, mi sta bbuono, ce vedimme.

Ce ne andiamo.

Per tutto il viaggio il mio amico mi ha detto che avevo fatto bene a trattarlo così a quello stronzo. E che a Luigi le cape toste gli piacciono.

 

Giallino mio, quanto mi sei mancato.

Faccio una scorribanda.

Un attentato alla circolazione.

Una corsa sfrenata. Lungo il parco, sino al mare, verso il porto turistico.

Un fulmine.

Giallino sfreccia come un coltello arroventato nel burro, lungo i tornanti della passeggiata a mare.

Indomito, indomabile, rombante.

Il motore che pulsa esatto, come solo le vespe della sua classe sanno fare.

Inconfondibile macchia gialla attraverso i cespugli verdi del parco.

Incurante della Polizia Municipale.

Di tutto.

Bevo una birra.

Fumo una sigaretta poggiato sul sellino primavera. Giallino ha la lingua di fuori, come un cane felice, un cavallo che ha galoppato la prateria.

Io Don Chisciotte, lui Ronzinante.

Io John Wayne, lui Quarter Horse, Appaloosa indiano: fuoco nelle vene.

Per me una sana Ceres, per lui tremila lire di miscela.

 

È giunto il momento di organizzarsi.

Luigino arriverà domani, di mattina.

La mattina, al porto, c'è sempre un gran casino. Un traffico di camion, auto, furgoni e via così.

Programmiamo le cose in questa maniera: lo accolgo io, alla scaletta della nave; ci appartiamo verso gli angoli meno confusi del cantiere navale; esibizione della merce; esibizione dei soldi ... e via, i colleghi piombano sul gruppo, manette a lui, al contatto, a me e al guardaspalle di Luigino.

Mi sembra tutto perfetto.

La nave giunge in orario. Perfetto.

Io sono là, sul molo.

Sono venuto su Giallino.

Fumo, occhiali ray ban dalle lenti scure, jeans neri, camicia nera, stivali con la borchia, marrone scuro, sembro un attore americano. I capelli lunghi al vento, la barba di un paio di giorni. Fico, veramente fico.

Eccolo, scende la scaletta che manco Greta Garbo se la  tirava tanto. Fianco a lui il guardaspalle, una specie dì bestione alto quanto largo, con la faccia inespressiva e i polsi come le mie caviglie, roba da starci attenti.

Contatto sorride stupidamente, è già bello fuso l'imbecille.

Ua... comme se dice da voi... picciotti!

Ciao. - Gli stringo la mano. Contatto si è un po' ripreso, fa il duro ora. - Vieni, seguimi.

Salgono sull'auto di Contatto, io sul mio vespino.

Raggiungiamo la zona Container. I colleghi sono tutti  appostati intorno, invisibili, alcuni ci scrutano con i cannocchiali dalla gru. Pronti a dare il segnale e intervenire.

- Allora... - Dico.

- Ua ... Leo. - Poggia una borsa di pelle nera, finta pelle, sul cofano dell'auto (gli spigoli sono logori, la pelle, o

meglio la plastica è venuta tutta via, noto), la apre. Dentro ci sono quattro sacchetti di cellophan, in ciascuno c'è una

quantità di pillole, di quattro diverse qualità e colori: rosa; blu; nere; marroncino chiaro puntellato di bianco. - E cheste so' diecimila... quattro da duemilacinquecento.

Prendo i soldi da sotto la sella, sono chiusi in una busta di plastica trasparente (le serie numerate, e tutti fotocopiati). Li tengo in mano, glieli mostro.

- E questi sono cinquanta milioni, belli come il sole e freschi come un uovo appena cacato.

- Ua... - Dice Luigino, e allunga la mano.

- Fermi tutti, Polizia!! - Dice Totò (quello con la faccia da pesce lesso, che ora però è serio e brutto). Ci piombano addosso in un attimo, sono dieci, i più grossi e più duri.

 

Luigino si muove velocissimamente. Scarta come un rugbysta il caro Totò, e sfreccia via come una saetta, la borsa ben stretta in mano.

Il guardaspalle fa un casino del diavolo, lo tengono in quattro.

Il Contatto, di fatto non ne capisce niente.

Io mi guardo in faccia con Totò salto sulla vespa e parto verso Luigino. Totò capisce, mi da qualche secondo poi sale sull'auto, accende la sirena, spara un colpo in aria. Mi insegue.

Io vado come un fulmine. Sono un fulmine. Raggiungo Luigino: Acchiana, gli dico, acchiana, amunì spicciati, gli sbirri, minchia gli sbirri, questo fu l'amico tuo... buttanazza di sua madre e cornuti dei suoi padri americani!!

Luigino mi guarda, perplesso.

- Acchiana, ti rissi! - Intanto l'auto con Totò sta giungendo, sirene a tutta forza e pistolettate in aria. Si convince, monta su.

 

Mi... Non lo so cosa è successo, Giallino... è stato come se qualcosa del suo istinto randagio si fosse svegliato improvvisamente. È partito come se avesse una volontà sua.

Via, cazzo, via. Velocissimo si butta nel traffico, supera un semaforo rosso come un kamikaze, svolta a destra e a sinistra, terrorizza un gruppo di pedoni, quasi travolge un Vigile (suoi acerrimi nemici da sempre), si inserisce tra le auto, tra gli specchietti, tra le ruote, come un filo interdentale tra gli incisivi.

Scivoliamo attraverso la città, invincibili, come sempre, io chino sul manubrio, Luigino attaccato alla mia vita (eccitato pure lui), Giallino rombante e impetuoso come una Ducati Super Bike.

Superiamo Piazza del Teatro. Via del Centro. Imbocchiamo la strada Storica. Saliamo su per la via Marmorea... direzione libertà (pensa Luigino), povero fesso.

Di sfuggita, ma davvero di sfuggita, guardo l'orologio della chiesa madre, che sorvoliamo irriverenti, sono le sette e quarantacinque.

Giallino svolta a sinistra improvvisamente, via dei Pittori, arco, piazzuola con auto parcheggiate.

Sbarra.

Che si alza.

- At... tenti!! - Grida il piantone, mentre l'altro collega fa il present'arm con l'M12.

Mi infilo dritto nel cortile della Mobile. Ci fermiamo.

- Ua... ? - Fa Luigino.

- Ua... ! - Rispondo io.

- Ua... - Di nuovo Luigino. - Guagliò... agg' capito, sei nù sbirro. Hai capito che fesso che songo!... E vabbuò! - Dice, rassegnato. - Però, cazzo... che Dio è motocicletta che tieni!... Ua...

Sgaso orgoglioso.

- Giallino ringrazia. - Dico.

E lo accompagno su, al quarto piano, negli uffici della narcotici.

Il racconto - segnalato al Premio Orme Gialle V edizione, anno 2000 - è stato pubblicato nell'antologia Un delitto dopo l'altro, CLD Libri 2002.