Un ritorno alla scuola dei duri americani.
Dopo avere letto alcuni gialli di vario genere, dal classico allo storico, dal fantastico al noir, dal thriller a quello psicologico mi è venuta la voglia di buttarmi su qualche vecchio testo della famosa hard boiled americana. Ogni tanto mi prende questa mania e bisogna che mi sfoghi. Tra l’altro c’è una casa editrice, la Hobby & Work, che sta ristampando classici davvero interessanti. E allora perché non approfittarne? Come nel caso di Il ghigno d’avorio di Ross Macdonald, Hobby & Work 2007.
Passiamo alla sintesi in seconda di copertina: “Nell’ufficio di Lew Archer appare una signora energica e misteriosa che lo assume per rintracciare Lucy Champion, giovane infermiera di colore. La ragazza, che lavorava al suo servizio, è sparita portando con sé alcune cose che avevano un valore relativo, ma la donna si rifiuta di dare ad Archer informazioni più precise sulle ragioni del suo incarico. Evita addirittura di dargli il suo cognome, gli dice che si chiama Oona e, dopo un botta e risposta sarcastico, se ne va stizzita. Archer è abituato agli incarichi destinati a rivelarsi delle rogne. Ma forse è così solo perché non sa farsi gli affari suoi, è un maledetto impiccione con un senso morale che non demorde mai. Così, una volta rintracciata Lucy, si mette a pedinarla e davanti ai suoi occhi incomincia a dispiegarsi uno scenario intricato, pieno di lati oscuri. E non appena scoprirà Lucy ammazzata nella squallida camera di un motel, Archer vedrà la vicenda legarsi a quella della scomparsa del ricco Charles Singleton, in un succedersi di delitti e nuovi sospetti che, come al solito, lo porteranno a varvare la soglia dietro cui si nascondono i torbidi retroscena dell’alta borghesia californiana…”.
La bellezza di questo e degli altri libri di Ross Macdonald sta, non solo nella trama, ma anche nello stile. Inconfondibilmente suo. Ritmo serrato, prosa scintillante ricca di metafore che scoppiano all’improvviso, una ironia ora leggera ora ferocemente sarcastica che pervade il tessuto narrativo. Una capacità istintiva di far vivere con pochi tocchi una folla o un paesaggio che sia quello della natura o quello della città. Un inno alla gioia dello scrivere tanto che restiamo quasi in ansiosa attesa di quali altre gemme ci potrà regalare lo scrittore. E se qualche volta eccede in esuberanza, in maestria pirotecnica, siamo pronti a perdonarlo. E poi c’è questo Lew Archer “la terza incarnazione del Privato gentiluomo” come lo ha definito Oreste del Buono dopo Sam Spade e Philip Marlowe che ci prende, ci affascina. Duro il giusto, se c’è da menare le mani non si tira indietro, ma corretto e provvisto di senso etico. Proprio in questo libro “Sono dalla parte della giustizia, quando mi riesce di ottenerla. E quando non mi riesce prendo le parti dei più deboli e derelitti”.
Ma vediamo di conoscere qualcosa sul suo autore.
Ross MacDonald, pseudonimo di Kenneth Millar (1915-1983), sembra essere nato per suscitare diatribe. Una l’ebbe con John D.MacDonald che lo aveva criticato per l’uso dello pseudonimo John Ross Macdonald, usato negli anni cinquanta e perfino per il titolo del suo ultimo libro Lew Archer e il brivido blu che si rifaceva alla serie di Mc Gee, caratterizzato anch’esso dalla presenza di un titolo “colorato”.
Anche Chandler, sempre negli anni cinquanta, lo aveva attaccato di brutto. In una lettera a James Sandoe del 14 maggio del 1959 massacra Bersaglio mobile per lo stile troppo ambizioso e troppo letterario. (A dir la verità Chandler ce l’aveva soprattutto con James Cain che scriveva, secondo lui, sconciamente di cose sconce. In una lettera al solito Sandoe, del 26 gennaio 1944, scrive “Mi ha sempre irritato essere paragonato a Cain. Il mio editore pensava fosse un’idea astuta perché lui aveva avuto un gran successo con The Postman Always Rings Twice, ma qualunque cosa io abbia o mi manchi come scrittore, non sono per niente come Cain. Cain è uno scrittore di quel tipo di faux naif che disprezzo in modo particolare”). Questo Ross Macdonald ha colpito l’attenzione di altri scrittori-critici come Manchette che, invece, lo rivaluta. In Le ombre inquiete, pubblicato da Cargo edizioni nel 2006, dice “Ho cambiato opinione riguardo a Ross Macdonald. Lo lasciavo intendere la volta scorsa. Un certo intellettualismo e la piatta fedeltà al classicismo chandleriano, in particolare alla sua figura stilistica più debole-la comparazione immaginosa-, infine la monotonia dell’intreccio, risultano di primo acchito scoraggianti. Alla fin fine, però, è proprio questa monotonia che affascina- in quanto ripetizione. La ripetizione è la chiave di Ross Macdonald…”.
Comunque sia Ross Macdonald è l’ideatore, come abbiamo visto, del detective Lew Archer che fa la sua comparsa nel 1949 in The moving target diventato un film nel 1966 con Paul Newman (con il nome di Harper). Sulle stesse strade di Santa Teresa (oggi Santa Barbara) lavora Kinsey Millhone, una investigatrice privata nata dalla penna di Sue Graft. Da seguire con attenzione.
A proposito dello stile del Nostro ecco alcuni spunti che ho ricavato dalla lettura di Non piangete per chi ha ucciso definito dal noto critico Anthony Boucher “il miglior romanzo nella tradizione della “scuola dei duri” che io abbia mai letto dopo Addio mio amata e Il falcone maltese”. La signora che ingaggia Lew Archer per ritrovare la nipote Galley Lawrence “era alta, sulla cinquantina, con occhi scuri e preoccupati in un viso lungo e preoccupato”. Parla “con una voce che di sicuro era la migliore delle sue caratteristiche”. La visione della stanza gli dà la sensazione di essere piombato nel passato e allora “afferrai il presente per la coda e lo feci entrare a forza in quella stanza”. Per dire grassa: “se i fianchi della signora Tarantine fossero stati di qualche centimetro più larghi sarebbe stata costretta a passare per traverso”. Tocchi di un brutale realismo: “le vene varicose si delineavano sulle sue gambe, sotto le calze, come grassi vermi bluastri”. Paragoni ed espressioni imprevedibili: “la carnagione era fresca e giovanile, ma gli occhi scuri e sporgenti parevano appena usciti da una pozzanghera e appesi su quella faccia ad asciugare”, “le banconote sembrano prendere qualcosa dal modo di fare di chi le maneggia e quella mi si accartocciò in mano come un grosso verme verdognolo”. A proposito di un farabutto sanguinario, “gli occhi sporgenti e le mascelle ruminanti lo facevano assomigliare a un gigantesco criceto travestito da uomo”. Anche la natura non la scampa: “la notte stava morendo lentamente, dissanguandosi in un’alba densa di parole”. Oppure “quando uscii dalla macchina la notte mi sovrastò come un albero con i rami fioriti di stelle”.
Ed ecco altri spunti tratti da Ghigno d’avorio. La signora massiccia che entra nel suo studio lo fissa “come un uccello che sembra ghermire un grosso verme”. Due finestre gemelle di un edificio sembrano “occhi inebetiti dal ricordo di innumerevoli terremoti” e “due soldati in uniforme apparvero dal nulla, pallidi come fantasmi presi in trappola dalla realtà”. Uno zampillo d’acqua cade a terra “come uno scroscio di risa”. “La sua voce m’accompagnò fino all’uscita come il filo d’una ragnatela tessuta all’infinito nello spazio”. “Il bus partì lentamente. Sembrava un serpente ubriaco”. E così via. Può piacere o non piacere…
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