Quando voglio leggere qualche bel giallo psicologico mi butto sugli scrittori nordici. Non che gli altri siano meno bravi ma se voglio andare quasi sul sicuro mi regolo così. Soprattutto se ci sono di mezzo storie familiari tristi e dolorose. Vale per tutti il libro La signora in verde di Arnaldur Indridason, Guanda 2006, in cui campeggia (per la sofferenza) la signora Margret (lo consiglio).
Così è stato, questa volta, per Il bambino nel bosco di Karin Fossum, Frassinelli 2008, nel quale, accanto alla vicenda gialla vera e propria, scorre parallela la grigia vita matrimoniale di Reinhardt e Kristine (ed è ancora la donna a sentirsi oppressa).
“In un tiepido pomeriggio di settembre, una coppia passeggia in un bosco immerso nel silenzio della campagna norvegese. All’improvviso, una macabra scoperta: ai piedi di un albero giace qualcosa, immobile nel muschio verde. E’ il corpo senza vita di Jonas August Løwe, otto anni, scomparso mentre rientrava a casa dopo avere passato la note da un amico. Porta addosso i segni di una violenza sessuale, ma nessun’altra traccia che possa chiarire le circostanze della morte o svelare l’identità dell’assassino”.
Chi indaga su questa maledetta storia è un “uomo alto con i capelli grigi”, Konrad Sejer. Serio, pacato, gentile, “estremamente moderato”, sempre vestito con cura (non so perché “Il Sole 24 ore” l’abbia paragonato a una sorta di Montalbano norvegese), ha un cane di nome Frank Robert. Soffre di psoriasi. In collaborazione con il giovane Skarre che serve quasi da contrappunto ai suoi pensieri sulla vita e sulla società. Testardo, cocciuto “Ti sto alle calcagna, e non mollo”. Non solo vuole scoprire la verità ma anche capire, sapere ogni minimo dettaglio. Più rigido di Skarre che cerca qualche appiglio nella debolezza umana. Una cosa è certa. Bisogna seguire e rispettare le leggi della Norvegia.
Si passa a indagare la vita del maniaco e poi quella di altri sospettati fra cui due gay e, naturalmente, quella degli sposi che individuano e seguono il probabile assassino. Un finale, anzi due finali plausibili senza l’assillo di dovere sorprendere per forza. Anzi, un terzo finale, a dir la verità, che riguarda la decisione di Kristine. Plausibile anche questo ma non meno efficace.
Una linea di sofferenza e di dolore serpeggia per tutto il romanzo e coinvolge soprattutto le donne. Direi quasi esclusivamente, come se solo loro fossero le depositarie di questo sentimento: Kristine ed Elfrid Løwe, la moglie e la madre.
Il tema della pedofilia è stato trattato anche da altri autori e ultimamente in maniera molto sentita e partecipata da Roberto Mistretta in Il canto dell’upupa già recensito. In questi gialli “sociali” c’è sempre il rischio di scrivere più una relazione (o addirittura un trattato) che un romanzo. Qui il rischio è stato in buona parte superato. Per questo lo consiglio.
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