La giornalista Cristina Zagaria, dopo aver raccontato la tragica storia della direttrice di carcere Armida Miserere, torna a scavare nelle pieghe della cronaca, questa volta scrivendo di Calabria.

Angela Donato è una madre a cui viene strappato il figlio, vittima di lupara bianca, ma che non si arrende, usando le stesse armi e codici della ‘ndrangheta per riaverlo, fino ad arrivare a collaborare con la giustizia. Il passato burrascoso di Angela, legato a personaggi delle ‘ndrine, rende la sua storia personale come una faticosa salita verso il riscatto e l’affrancamento dalla schiavitù delle mafie. Anche se non alla lettera, una pentita di ‘ndrangheta, caso più unico che raro, considerando che la mafia calabrese è la meno intaccata dal fenomeno per via della sua natura chiusa e familiare.

La geografia della vicenda, per chi scrive, è anche la sua mappa natale, un territorio che comprende tutta la piana lametina, in provincia di Catanzaro, un fazzoletto dalle mille possibilità di sviluppo mancate (l’area ex SIR, l’aeroporto, la centralità) minata come poche dallo strapotere delle cosche, dimenticata dalle cronache nazionali.

L’operazione della Zagaria ha quindi il pregio di accendere i riflettori su una terra poco narrata e di conseguenza poco conosciuta, scegliendo una storia drammatica (la lupara bianca, il massimo della disperazione, una morte che non concede la pietà del pianto su una tomba) quanto anomala.

Quanto al libro in sé, soffre di alcuni difetti, soprattutto un’ibridazione non sempre felice fra taglio giornalistico e tono letterario, che qualche volta finisce in una lirica un po’ retorica. Qualche cattivo potrebbe pensare a una "savianata" non riuscita, ma non è così. La verità è che Roberto Saviano ha indiscutibilmente cambiato il modo di raccontare la criminalità organizzata in Italia e operazioni di questo tipo, se non calibrate bene, rischiano di apparire a occhi meno attenti come commerciali e non di impegno civile, complici strilli di copertina sibillini e inutili, come quel "Una storia vera" che ribalta subito l’immaginario di chi legge ponendolo in una pseudo-fiction televisiva, fatta apposta per incazzarsi e piangere e poi dimenticare.

Fuori da ogni polemica, la storia di Angela Donato e di suo figlio Santo merita di essere conosciuta, ricordata e posta come esempio di lotta alla mafia e l’Osso di Dio è un buon libro per conoscerla.