La casa editrice Marsilio da diversi anni si è resa benemerita nei confronti del giallo internazionale proponendo al pubblico italiano autori provenienti da tradizioni nazionali quasi sconosciute nel nostro paese (penso soprattutto alla saga poliziesca di Kurt Wallander dello scrittore svedese Henning Mankell) o talmente acerbe (è il caso del giallo israeliano) da non aver mai suscitato alcun interesse negli editor italiani.

Giallo israeliano: in effetti, solo a pronunciarla, questa definizione suona un po’ surreale se si considera l’infinita produzione anglosassone o quella, pur rispettabile, latino-americana ed europea.

Eppure Breznitz, eroe eponimo del romanzo in questione, non ha nulla da invidiare ai suoi più titolati colleghi.

Massiccio, un passato nell’esercito, è salito fino alla carica di commissario della Omicidi a Tel Aviv; ha anche lui la sua brava “spalla” (il sergente Binshtok) e le sue disavventure coniugali (il matrimonio è ormai solo di facciata e lui è reduce da una tempestosa storia d’amore con l’affascinante Ahuva) come ogni bravo detective di mezz’età sulle due sponde dell’Atlantico. E la realtà con cui ha a che fare è quella sordida che immalinconisce i poliziotti di mezzo mondo: boss grandi e piccoli della malavita, omosessuali più o meno rispettabili, famiglie chiuse nella difesa di una tradizione che ormai esiste solo nella loro mente, colleghi che approfittano degli interrogatori per andar giù pesante con le mani, superiori che pretendono risultati e visibilità sui media.

Anche la vicenda, la morte di un giovane omosessuale ritrovato col viso sfigurato dopo giorni e giorni di abbandono, ha quei toni grigi che tanto piacevano al Simenon delle inchieste di Maigret: Haim Lapid, infatti, docente universitario nonché critico cinematografico e sceneggiatore, cura nei dettagli l’aspetto letterario e psicologico della sua storia; ma, non essendo probabilmente un cultore del genere o, più semplicemente, non essendo interessato all’aspetto seriale del giallo (benché i presupposti ci sarebbero tutti), confeziona un finale davvero a sorpresa che gli preclude però ogni sviluppo ulteriore del suo personaggio.

Lapid dà l’impressione cioè di utilizzare il giallo (come Sciascia in Italia, il già citato Simenon in Francia e Dürrenmatt in Svizzera) come scandaglio per scoprire i mali segreti della società israeliana che, pur nella sua caratterizzazione come terra di frontiera, negli anni ha finito per raggiungere un elevato grado di omogeneità con l’occidente capitalistico, ricco, materialista e religiosamente agnostico. Chi cercasse infatti del facile colore locale, sbaglierebbe libro: Tel Aviv e i suoi dintorni sono disperatamente simili alle nostre metropoli, le zone desertiche fecondate dalla poca acqua e dal lavoro dei coloni più tradizionalisti non sfigurano rispetto alle lande desolate degli States sud-occidentali; le stazioni di polizia trasudano fatica, cattivi odori e sonno arretrato come in tutto il mondo.

Il fascino di questo libro risiede dunque nel  metaforico “corpo a corpo” tra il commissario Breznitz e un caso che nessuno vuol risolvere: quasi lo avvertisse nell’inconscio, vede nella sua soluzione una questione personale, di vita o di morte. E in effetti nelle ultime pagine il cerchio si chiude con geometrica perfezione lasciando nel lettore un retrogusto amaro, neppure alleviato dalla consolatoria certezza di una successiva puntata.

Voto: 8