Soltanto due anni prima era stato protagonista di uno degli esordi cinematografici più sorprendenti del panorama statunitense contemporaneo, col film Reservoir Dogs (Le iene).
Quentin Tarantino ha trent'anni quando con la sua opera seconda, Pulp Fiction, conquista prima la giuria (presieduta da Clint Eastwood) del Festival di Cannes nel 1994 e si aggiudica una storica Palma d'oro, poi i membri dell'Academy vincendo (insieme all'amico Roger Avary) l'Oscar per la miglior sceneggiatura originale dell'anno.
Vincent Vega (John Travolta) e Jules Winnfield (Samuel L. Jackson), Mia Wallace (Uma Thurman) e Marsellus Wallace (Ving Rhames), Butch Coolidge (Bruce Willis) e Fabienne (Maria de Medeiros), Pumpkin (Tim Roth) e Yolanda "Honey Bunny" (Amanda Plummer), Lance (Eric Stoltz) e Jody (Rosanna Arquette), il capitano Koons (Christopher Walken) e l'impareggiabile Winston "The Wolf" (Harvey Keitel): tutti riemergono dalla frantumazione narrativa e circolare del film per approdare sulle pagine che Alberto Morsiani, prestigioso critico da sempre attento alla cinematografia statunitense, dedica a questo film "icona di un'epoca" e al suo regista "wonder boy".
Scrive Alberto Morsiani:
"Pulp Fiction procura un divertimento doppio: il primo è immediato, in cui il godimento è a livello viscerale, non intellettuale, per il piacere offerto dall'effimero della cultura pop e dall'intreccio di storie e personaggi della tradizione noir e hard boiled; il secondo è più sofisticato, accessibile a chi apprezza una bistecca "alla Douglas Sirk" o capisce la differenza di qualità tra due serial televisivi o tra un quarter pounder e un "Big Kahuna Burger".
Il film ha dunque appeal sia su un pubblico popolare, sia su un pubblico colto: concilia arte e consumo, alto e basso.
È cool nella misura in cui i giochi dell'universo contemporaneo sono l'estasi, la fascinazione, la comunicazione, il caso, la vertigine.
Per Quentin Tarantino, il wonder boy del cinema, è appassionante e cool solo ciò che smentisce il bell'ordine dell'irreversibilità del tempo e della finalità delle cose.
Con il suo tempo circolare e reversibile, con i suoi personaggi che muoiono e resuscitano, Pulp Fiction è lì a dimostrarlo.
In esso convivono iperrealismo e fiaba, rétro e postmoderno, riciclaggi e invenzioni, confronti e scontri, orologi d'oro e frappè, chopper cromate e spade katana, sermoni e sodomie, gare di twist e spari in faccia.
Un appassionante, vertiginoso groviglio narrativo che coniuga un'intera antologia di stili e in cui convivono diversi feticci: la grammatica della violenza, la stilizzazione delle patologie, la narrazione come gioco sadico e farsesco, un senso del presente ermetico. Un film che è un a gioiosa macchina del tempo, un'esperienza estetica globale, l'icona di un'epoca.
Alberto Morsiani è direttore artistico dal 1992 dell'Associazione Circuito Cinema di Modena. È critico cinematografico della Nuova Gazzetta di Modena e collaboratore di Cineforum e di altri periodici e siti specializzati. Studioso soprattutto di cinema americano, ha pubblicato tra l'altro Anthony Mann (1986), Joseph L. Mankiewicz (1990/2006), Scene americane. Il paesaggio nel cinema di Hollywood (1994), Oliver Stone (1998/2008), Quentin Tarantino (2004/2005), Gus Van Sant (2004), L’America e il western. Storie e film della frontiera (2007). Per i tipi di Lindau ha pubblicato John Ford. Sentieri selvaggi (2002/2007).
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