Contemporaneamente alla chiusura di Murder One, fece il suo debutto sugli schermi di ABC un altro legal drama di ottima qualità, creato non da Steven Bochco ma da uno dei suoi collaboratori in L.A.Law, in qualità di story editor, supervising producer ed autore di alcuni soggetti: David E. Kelley.
La serie di cui stiamo parlando è The Practice (in Italia ‘Professione avvocati’). Pluripremiata dalla critica, la serie ha vinto tra l’altro l’ambìto Emmy della categoria ‘Outstanding Drama Series’ e un Golden Globe cone miglior serie drammatica. Almeno inizialmente tuttavia, forse anche a causa della sfortunata programmazione il sabato sera, la serie è passata quasi inosservata agli occhi dal pubblico. Tanto da far titolare una copertina di TV Guide dedicata alla serie: ‘The Practice - The Best Show You’re Not Watching’. Fortunatamente, al contrario di quanto è accaduto con Murder One, la ABC decise di insistere con la programmazione, e nel giro di alcune stagioni anche il pubblico cominciò ad affezionarsi alla serie facendola entrare nella top ten dei programmi più visti.
Sulle orme di L.A. Law, ma con molte differenze che non ne fanno una pedissequa imitazione del fortunato predecessore, The Practice racconta le vicende di un gruppo di avvocati di un piccolo studio legale di Boston, di certo meno ‘classy’ della McKenzie-Brackmann e con qualche problema economico in più, almeno inizialmente.
L’estrazione sociale dei clienti dello studio legale è estremamente varia, da multinazionali miliardarie a teppistelli squattrinati. Anche i crimini variano ‘dal brutale al banale’, ma tutti meritano una difesa appassionata.
La figura dell’avvocato difensore è qui dipinta a tutto tondo, con i suoi lati positivi e negativi, piacevoli e spiacevoli, morali e immorali. Com molti dilemmi etici in più rispetto a quanto trasparisse dalle sceneggiature di L.A. Law.
Come scrisse il New York Times, la serie racconta la “battaglia senza fine, profondamente realistica, tra l’esame di coscienza e l’ambizione”.
Tra i compiti di un avvocato difensore c’è anche quello di difendere i colpevoli, i criminali più efferati. Ma sarebbe giusto difenderli con meno passione? No, anche loro hanno diritto ad una difesa. E qualche volta vincono, magari per un cavillo, lasciando il difensore in crisi di coscienza, pieno di dubbi sul significato del suo lavoro. Tantopiù che la volta successiva, magari, verrà condannato un innocente. Ma questo è il sistema giudiziario, che garantisce equità e giustizia all’inevitabile costo di qualche ingiustizia. Il compito di un avvocato difensore non è fare giustizia, ma difendere il cliente e convincere una giuria della sua innocenza.
Ciò non deve trarre in inganno: gli avvocati della Donnell, Young, Dole & Frutt sono costantemente animati - in fondo - da ideali di giustizia, da una vera e propria passione per il loro lavoro e dalla volontà di combattere fino alla fine per i loro clienti. Anche se non sempre, come da copione in un telefilm realista degli anni novanta, riescono a spuntarla. Fino alla fine dell’episodio, il verdetto della giuria resta un dubbio.
La squadra originaria era composta dal giovane avvocato Bobby Donnell (Dylan McDermott), fondatore e ‘socio anziano’ dello studio; Jimmy Berluti (Michael Badalucco), inizialmente inesperto ma dal cuore d’oro; Eugene Young (Steve Harris), l’avvocato di colore che non ha problemi a mettersi contro tutto e tutti; la storica segretaria Rebecca Washington (Lisa Gay Hamilton), divenuta avvocato nel corso della serie frequentando una scuola serale all’insaputa dei suoi colleghi; la simpatica e un po’ sovrappeso Ellenor Frutt (Camryn Manheim); la giovane e ambiziosa Lindsay Dole (Kelli Williams).
Coinquilina di Lindsay e amica di tutti gli avvocati dello studio (per un breve periodo ha avuto anche una storia sentimentale con Bobby), Helen Gamble (Lara Flynn Boyle) è un’agguerrita assistente procuratore distrettuale e molto spesso veste in aula i panni dell’accusa ‘scontrandosi’ professionalmente con i suoi amici.
Al termine della settima stagione, a causa di un calo degli ascolti, la serie fu costretta ad un drastico taglio nel budget che costrinse Kelley a licenziare praticamente tutto il cast (incluso McDermott), rivoluzionando i protagonisti dell’ottava stagione e introducendo i personaggi di Alan Shore (James Spader) e Tara Wilson (Rhona Mitra).
Gli ascolti salirono leggermente, e Spader vinse anche un Emmy per la sua interpretazione, ma come sempre accade in questi casi la serie non era più sé stessa. La ABC decise perciò di chiudere i battenti di The Practice dopo 168 episodi, utilizzando gli ultimi episodi dell’ottava stagione per introdurre un suo spin-off, Boston Legal, che avrebbe ‘ereditato’ il personaggio di Spader.
Prima di arrivare a Boston Legal, tuttavia, è necessario fare un passo indietro: contemporaneamente al debutto di The Practice, nel 1997, esordiva infatti sugli schermi di FOX un altro legal di David E. Kelley, sempre ambientato a Boston: Ally McBeal.
Laureata ad Harvard, Ally McBeal (Calista Flockhart) è una giovanissima avvocatessa nell’eccentrico studio legale di Boston aperto dal suo ex-compagno di studi Richard Fish (Greg Germann) insieme all’amico John Cage (Peter MacNicol). Nel medesimo studio, lavorano anche l’ex fidanzato di Ally, Billy (Gil Bellows), e sua moglie Georgia (Courtney Thorne-Smith); la iperpettegola e frizzantissima segretaria Elaine (Jane Krakowski) e molti altri insoliti personaggi.
Come legal drama, Ally McBeal è decisamente sui generis e i toni da commedia, talora apertamente umoristici, tendono decisamente a prevalere. Incentrata soprattutto sulle instabilità emozionali di Ally (che soffre anche di allucinazioni ricorrenti) e la sua ricerca senza fine dell’anima gemella, e in generale sulle vicende private dei protagonisti più che sull’aspetto professionale del loro operato, la serie presenta comunque interessanti spunti giudiziari, spesso molto originali, e non mancano di tanto in tanto veri e propri dilemmi morali, per quanto sempre stemperati dai toni comici della serie.
Quasi sempre, tuttavia, i ‘casi’ giudiziari finiscono in qualche modo per intrecciarsi alle vicende personali di Ally, o in modo diretto o perché c’è un’analogia, e il più delle volte il contenuto dell’arringa finale si può leggere con due chiavi: una relativa al caso in sé, l’altra alla vicenda legata alla sfera personale della protagonista.
Tutti gli avvocati dello studio Cage&Fish sono decisamente improbabili, a cominciare dai due soci fondatori; per Richard, che è attratto dalle donne più anziane possibilmente con il collo flaccido, il guadagno economico è praticamente l’unica ragion d’essere di uno studio di avvocati, e non manca di ricordarlo attraverso i suoi strampalati motti estemporanei (che lui chiama “Fishisms”). John è un avvocato infallibile ma ha problemi di balbuzie, una vita sentimentale disastrosa, enormi problemi di relazione interpersonale, ha costruito un dispositivo a distanza per tirare lo sciacquone prima di entrare nel famoso bagno unisex dello studio legale, e per funzionare ha bisogno di riprodurre mentalmente le canzoni del suo idolo Barry White, spesso muovendosi a ritmo della musica immaginaria.
Nonostante tutte queste peculiarità, Ally McBeal resta pur sempre un legal drama in tutto e per tutto, con dei casi da sostenere (qualche volta più importanti e qualche volta più strambi o triviali, ma sempre verosimili), gli scontri in aula, le arringhe appassionate ed emozionanti degli avvocati, i giudici, le giurie e tutti i formalismi e le procedure del sistema legale americano.
Il carattere rilassato e divertente della serie, l’eccentricità dei personaggi, gli aspetti legal propriamente detti, e il sapiente uso della colonna sonora e della musica in generale (i protagonisti si ritrovano tutte le sere nel locale dove si esibisce Vonda Shepard e, occasionalmente, qualche guest star d’eccezione come Barry White, Tina Turner, Sting, Elton John o Bon Jovi), fanno di Ally McBeal è una serie decisamente piacevole da seguire, come testimoniano due Emmy awards, tre Golden Globes, due SAG awards e soprattutto l’enorme successo riscosso durante le 5 stagioni di programmazione su FOX, per complessivi 112 episodi.
Siamo così arrivati a Boston Legal, la terza produzione della ‘trilogia’ di legal drama ambientati a Boston e nati dalla fantasia di David E. Kelley. Comprendere Boston Legal è facilissimo se si hanno in mente le due produzioni precedenti, in quanto la serie bilancia gli elementi vincenti di entrambe: da un lato la seria attenzione alle questioni sociali, i dilemmi etici e le problematiche giudiziarie prevalente in The Practice, dall’altro il tono leggero, i personaggi eccentrici e le situazioni insolite prevalenti in Ally McBeal.
In onda su ABC dal 2004 e ancora in produzione, la serie segue le vicende dell’avvocato Alan Shore (James Spader) nello studio legale Crane Poole&Schmidt, al quale si era rivolto per fare causa allo studio legale di The Practice dopo esserne stato licenziato, vincendo la causa e ricevendo anche una proposta di assunzione.
Boston Legal conta su valide e su un cast d’eccezione, con William Shatner nei panni di Danny Crane e Candice Bergen in quelli di Shirley Schmidt. Vittima di un destino che si ripete, è acclamata dalla critica e ha vinto quattro Emmys ma non ha mai raggiunto la vetta delle classifiche. A partire dal 2007, grazie alla programmazione dopo il programma Dancing with the Stars (la versione americana del nostro Ballando con le stelle), il numero di telespettatori è tuttavia aumentato significativamente, a dimostrazione per l’ennesima volta che la collocazione di palinsesto è il più delle volte decisiva nel determinare il successo o meno di una produzione.
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