Into the wild, tratto dall’omonimo bestseller di Jon Krakauer Nelle terre estreme, racconta la vera storia di Christopher McCandless, che nel 1992, all’indomani di una laurea a pieni voti e sulla soglie di Harvard, decide di abbandonare famiglia e studi. Bruciato il denaro, tagliate le carte di credito, donati i suoi risparmi all’Oxfam (una celebre Ong) e ribattezzatosi Alex Supertramp, si mette in viaggio verso l’Alaska dove vivere a stretto contatto con la natura. Dopo aver resistito per quattro mesi, oramai denutrito e allo stremo delle forze, Alex muore in un autobus abbandonato che aveva eletto a sua dimora…
Accolto in modo entusiastico pressoché ovunque, Into the wild, quarta regia di Sean Penn non convince del tutto. Meno ascetico di quello che ci si aspetta, ma soprattutto meno coinvolgente di quanto sarebbe necessario anche se ricorre a tutti i mezzi, leciti e illeciti, per diventarlo. Forse al film nuoce una complicità eccessiva con il quale lo sguardo di Penn scruta il suo eroe tragico cui dà vita Emile Hirsch (subentrato a Di Caprio). Da questa estrema complicità dove la distanza si accorcia fino ad annullarsi, emerge un ritratto a tutto tondo di buoni sentimenti formalizzati dagli incontri di Christopher lungo il viaggio, incontri sempre e soltanto edificanti (tranne un manesco controllore delle ferrovie che scopre Christopher all’interno di un vagone merci) dove tutto quello che si dà torna indietro decuplicato. La luna di miele con la natura selvaggia, vera meta del viaggio, finisce bruscamente quando la stessa torna ad essere quella che in fin dei conti è da sempre, sommamente indifferente alle vicende umane. Finito il cibo, giacché un conto è uccidere un alce e un altro è conservarne le carni, Christopher si avvia lentamente verso la fine (ma la cinepresa che si allontana dal corpo di Christopher uscendo dal lunotto posteriore dell’autobus così da simulare l’anima che lascia le spoglie mortali, appartiene di diritto all’uso retorico dei movimenti di macchina…).
Come storia (perdersi nella natura…) sarebbe stata adattissima ad Herzog, anzi forse Herzog sarebbe stato più a suo agio. Avevamo lasciato Sean Penn con La promessa con la convinzione di aver visto l’opera di un regista nel vero senso del termine, maturo in grado di raggiungere il massimo dell’espressività con la più assoluta economia dei mezzi. Lo ritroviamo molto diverso, forse troppo coinvolto dall’argomento. Chapeau al coraggio e alla perseveranza (la realizzazione del film tra stop and go ha richiesto dieci anni…), ma si rimane perplessi.
Golden Globe 2008 come migliore canzone originale a Guaranteedè di Eddie Vedder.
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