Mi chiamo Fernando, e questa è una domanda che non mi si rivolgeva dalle scuole medie, festicciole e brufolazzi, avete presente? Eventi mondani bagnati di aranciata e chinotto in cui si conoscevano eserciti di piccole squinzie e ci si innamorava facilmente.
- Come ti chiami?
- Fernando. E tu?
- Roberta.
- Che bel nome. Vuoi un po’ di aranciata?
- No.
- Ti amo. Vuoi stare con me?
- No.
Detto questo, sì, il mio nome mi piace. Non siamo in molti noi, i Fernandi. Uno illustre però c’è: Fernando Pessoa. Che poi in realtà lui era pure Alvaro, Ricardo e tutti i suoi fratelli. Il Libro dell’inquietudine del buon Fernando P. mi ha accompagnato per un tot di tempo in bagno, infarcendo le mie sedute di grame meditazioni. E memore di quell’esperienza e di questa semplice domanda d’apertura (come ti chiami?), mi viene proprio adesso da pensare che, di questi tempi, quando conosciamo qualcuno, raramente gli chiediamo il nome. Per noi è un obiettivo sessuale o lavorativo, o ancora ludico-ricreativo-perditempo, qualcosa di simile ad una patatina da aperitivo parlante. E’ terribile. Spersonalizzazione, identità confuse. Tra poco ci chiameremo coi codici fiscali.
- Ciao FZZFNN!
- Uh, MROSMC, che piacere vederti!
Stop. Niente prediche, ma si sa, a noi italiani le prediche piacciono da morire.
Soprannomi? Qualche amico mi chiama affettuosamente Infernio, altri Faz, tra i connettivisti sono Black Hole Sun.
Vivo in un centro commerciale, in una ridente piana ipermercata, per dirla con Vinicio. Lavoro a Bologna. Ops, scusate. Vivo a Bologna e lavoro in un centro commerciale. Faccio l’ottico.
Non ho molti amici, qui. La mia Confraternita dell’uva l’ho lasciata a Lamezia Terme. Ancora devo finire di disfare il trolley di cartone che mi sono portato dietro. Qui, o nei pressi, ho però recuperato un pezzo della mia vita affettiva, un fratello e Francesca, la mia ragazza (apparsa nella mia vita nell’era felice del post-brufolazzo). Da qualche mese si è stabilito tra le mura felsinee l’amico Giovanni De Matteo, coetaneo capobanda connettivista, nonché profeta della vera pizza napoletana e della Weissbier molesta.
Sogni? Sì, sogno e poi dimentico: è questo il guaio. E vale anche per quelli non notturni.
Lavoro tanto. Tempo libero? He! He, hem... Il poco lo dedico al ciclo del bolo alimentare, adoro magiare, bere e tutto quel che ne consegue, ovviamente alla lettura e alla scrittura, mai abbastanza alle persone che amo. Lo sport mi piace vederlo fare a Trezeguet e compagni, in quelle occasioni muovo gli occhi, ed è già una fatica. Poca, pochissima tv. Non mi entusiasma, per non dire che mi deprime. L’informazione e tutto il resto la prendo dalla Rete. Al piccolo schermo preferisco di gran lunga il cinemascope. Ah, a proposito di cinema, colgo l’occasione per rivolgervi un accorato appello: riscoprite Elio Petri, un grande regista letteralmente cancellato dalla storia della celluloide.
Stop. Niente proclami, ma si sa, a noi italiani...
La scrittura non la “penso” troppo. La scrivo. Non ho particolari motivazioni, del tipo “scrivo per cambiare il mondo”. Lo faccio per raccontare. Per dare forma a un’idea.
Scrivo racconti e articoli, in passato anche poesia ma è meglio sorvolare. Ci provo col romanzo.
- Ciao, mi chiamo Fernando, tu?
- Romanzo.
- Oh, che bel nome! Un po’ di aranciata?
- No.
- Ti amo. Posso scriverti?
- No.
Non penso ci siano ricette particolari per essere notati nel campo dell’editoria se non scrivere al meglio possibile e avere un po’ di culo.
A Thriller Magazine mi sono proposto. All’epoca scrivevo qualche recensione per il Corriere della Fantascienza, ho visto il bando di arruolamento e una volta contattato il Capovich, che mi ha messo alla prova con una serie di indicibili fatiche, eccomi qua.
Sono soddisfatto dello spazio che ho e non penso di meritarne dell’altro. Poi, bé, chi vivrà vedrà. Scrivo qualche racconto anche per Next, rivista di cultura connettivista. Ho pure provato a dirigerne una io di rivista, ma il progetto è naufragato.
Lavorare in editoria ed essere stipendiato? Ah, eccolo qua un sogno, ma me l’ero dimenticato...
Di bestie immonde nel settore ne ho incontrate parecchie, in genere scrittorucoli che il don Mariano di Sciascia collocherebbe senza dubbio tra i quaquaraquà, ma anche nella categoria precedente che non cito e che chi ha letto Il giorno della civetta conosce benissimo.
Di persone intelligenti e interessanti ne ho incontrate e per fortuna, al momento, sono la maggioranza. Potrei citare in ordine sparso Loriano Macchiavelli, un signore, la triade palermitana Cacciatore-Gebbia-Palazzotto, Gianfranco Nerozzi, ultimamente ho avuto modo di conoscere Vittorio Curtoni... Uh, tanti, veramente, a ripensarci. Altra gente che ho conosciuto e che sento o ho sentito solo via mail, come Raffaella Catalano… In generale, salvo qualche eccezione, tutti quelli che ho intervistato per le mie rubriche. Poi c’è l’underground, che pullula di TDC (teste di c) ma anche di personaggi interessanti, il già citato Giovanni De Matteo (anche se lui è quasi over-ground), Simone Conti e i connettivisti tutti, e un vecchio amico che non sento da tanto e che si chiama Elvezio Sciallis. E mi fermo qua, perché le liste producono palle di dimensioni zeppeliniane.
Potrei concludere dicendo che l’editoria non sfugge alla regola del frattale rispetto alla vita e alle gente in generale. Ci sono i buoni, i brutti, e i cattivi. Solo entrano in campo con più frequenza due elementi, di cui uno è componente fissa della vita, i soldi, e l’altro è più relativo nel generale e più pervasivo nell’editoria, il narcisismo.
Cosa mi dà il thriller? Bé, sembra scortese sentirselo dire da uno che scrive per Thriller Magazine, ma il thriller in sé, il thrillerone americano, mi dà veramente poco, se non una sottile invidia per la dedizione professionale con cui certi scrittori producono romanzi. Tutto il resto, il “thrilling” - la sospensione - sì, quello mi dà una chiave di lettura all’inquietudine quotidiana.
La scrittura nella mia vita ha la sua giusta importanza. Nessuna folgorazione. Nessun atto di fede. E’ una parte di me. Punto. Virgola, esclamativo e interrogativo. La questione non è quanto tempo gli dedico, ma che tempo gli dedico: rimasugli, avanzi mentali di giornate comuni. La lettura? Ah ecco, appunto: è un’ancora di salvezza, tutto il tempo in cui il mio cervello rifiuta di collaborare alla scrittura nero su bianco, cerco di dedicarlo almeno alla lettura. Anche se i libri sono veramente troppi. Ma diffido da chi dice “non ho il tempo per leggere”. I tascabili li hanno inventati apposta, e il bello è che sono già belli che scritti e ci sono pochissime pagine bianche.
Come sono i rapporti con l'editoria? Eh, amore platonico. Corte a distanza.
- Ciao Editoria, mi chiamo Fernando e...
- Non bevo aranciata, arrivederci.
Stop.
Così, su due piedi, e nemmeno a quattro zampe, non mi vengono in mente aneddoti da raccontare. Qualcuno da ringraziare, salutare? Tutti quelli che non ho citato, la famiglia tutta, compresa la piccola Aurora. Marco, Ciccio, Paolo, Bacocchi; Fez, Elena, le Sorelle e gli amici di Firenze. Poi la redazione, sì... e ecco, uno ce l’ho: quel ragazzo che incontro spesso al “semaforo” e che questa mattina mi ha augurato buon Natale e al quale non ho saputo rispondere...
Qualcuno che ti ha fatto davvero innervosire… Hum, vediamo: lui lo sa, lei lo sa, tutti quelli che sono stati testimoni di episodi significativi di surriscaldamento testicolare lo sanno. Stop.
Al di là delle soddisfazioni personali, se penso che l'editoria paghi? Se ci posso vivere? Bella domanda. Allo stato attuale no, a fatica ci si riesce fuori dall’editoria. Ma un domani, cacchio, un domani medito di diventare ghost writer, sì. Sogno di scrivere uno o più Harmony, anche se ancora non ho avuto il coraggio di comprarne uno. Ma un giorno mi emanciperò e... Se il buon Sergione leggerà mai questo sproloquio mi tenga in considerazione.
Chi non sopporto e quali comportamenti non sopporto nell'ambiente editoriale… Detto prima: narcisismo eccessivo, imbecillità diffusa e parlare ad minchiam; nella vita in generale le prese per il culo, e sono tante, se ben ci pensate: possiamo trovare prese per i fondelli dentro una scatola di fagioli e, fattesi corpo e sangue, sedute su una poltrona a legiferare.
L’ultima domanda è cattiva, eh! Il lavoro, per vivere o anche soddisfazione?
Cito una vignetta di Bucchi apparsa su Repubblica: mi iscrivo alla facoltà di non rispondere.
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