Da una storia vera, l’omicidio nel 1906 dell’architetto Stanford White, progettista del Madison Square Garden, da parte di un marito tradito, storia già trasposta per lo schermo nel 1955 da Richard Fleischer (L’altalena di velluto rosso), Claude Chabrol trae l’ennesimo gioiello che va a far compagnia ai tanti altri di una carriera lunghissima (molto simile a quella di Woody Allen in termini di prolificità…).

Da La commedia del potere, il malcostume dell’alta finanza smascherato da un inflessibile magistrato donna, a L’innocenza del peccato, altro malcostume che si annida esattamente dove è lecito aspettarsi che Chabrol lo vada a stanare, esattamente là dove alligna e si riproduce, cioè all’interno di due mondi alto-borghesi: ricco, colto, perverso, l’uno, all’interno del quale si muove Charles Saint-Denis (un misurato e bravissimo Paul Gaudens), scrittore di successo che ama la vita ritirata (in campagna…) ma senza beninteso rinunciare ai piaceri della carne, solo ricco e piuttosto formale l’altro, dove a fare il bello e il cattivo tempo è Paul Gaudens (un altrettanto bravissimo Benoît Magimel), rampollo di famiglia, ciocca con mèche sulla fronte, viziato senza essere vizioso.

A fare da detonatore tra i due mondi sarà Gabrielle (Ludivine Sagnier), giovane e assai bella “meteorina” in una TV locale. Prima diventerà amante di Charles, che non esiterà più di tanto a farne un oggetto di puro consumo per sé e per i suoi amici, poi, scottata dal suo abbandono, convolerà a nozze con Paul che com’è lecito attendersi non stravede per il rivale in amore.

La tragedia, ampiamente annunciata, si presenterà puntualmente ma senza che Chabrol ceda di un millimetro alla semplice messa in scena del solito “ménage à trois”. Piuttosto è interessato alla vivisezione non soltanto dei due mondi che finiranno col collidere, ma anche a quello un po’ più defilato dove Gabrielle muove i suoi primi passi, quello cioè televisivo, anche questo con le sue magagne, le sue falsità, le sue finzioni.

A Chabrol va dato il merito di sapere schivare la trappola principale di una storia simile, quella cioè di cedere al morboso che è connaturato alla relazione tra il maturo Saint-Denise e la giovane Gabrielle preferendo al contrario declinare il tutto in chiave puramente allusiva e asciugando il più possibile la storia condendo il tutto con dialoghi affilati e perfetti.

Finale sulle tavole di un palcoscenico dove mentre si perpetua l’ennesima finzione, il titolo originale trova la sua incarnazione e dove forse tutto, condito da una lacrima, può ricominciare ad essere.