E da noi l’onore va rispettato. Così Maria me la sono sposata. In fondo poi ho imparato a volerle bene anche piccola e cicciottella com’era. E’ sempre stata un’ottima madre e una moglie esemplare. Mai una sera che sia rincasato senza trovare qualcosa nel piatto anche quando non guadagnavo neanche i soldi per il pane. Mai una sera che abbia detto di no quando cercavo il suo corpo, neppure quando oramai era diventato solo uno squallido sfogo alle frustrazioni della giornata e me ne fregavo di lei e di ciò che voleva. Nicola è stato il collante del nostro matrimonio.
Ci siamo trasferiti in Piemonte quando lui aveva pochi mesi. Volevo dimostrare a tutti che potevo farcela da solo a mantenere la mia famiglia, anche se in tasca avevo poco più di un milione e neppure uno straccio di titolo di studio.
Non ricordo neanche perché scegliemmo proprio questa zona per venire ad abitare. Serravalle Scrivia. Un posto orribile. Un paese di confine dimenticato da Dio, dove le case cadono a pezzi, il tempo è sempre grigio e per la maggior parte dell’anno piove o nevica. L’umidità entra nelle ossa e le fa scricchiolare, le distrugge, fa venire mille dolori.
Altro che terra promessa.
Un appartamento squallido vicino alla stazione. Un posto come cartellista. Tre turni, niente feste, niente mutua. Sgobbare e non parlare era l’unica soluzione per tenersi il posto.
Come rimpiango la mia Sicilia. Il sole, il caldo, il mare.
Maria è ripartita pochi giorni dopo avermi cacciato.
Mio figlio è andato via da un anno ormai. Da quando gli avevo fatta una scenata perché rientrando a casa avevo trovato lui e la fidanzata sul divano a baciarsi. A Genova, dove lavora.
Forse lui è felice.
Poi quel giorno lei, Helena.
Ero stanco di tornare a casa e discutere, litigare con Maria, andare a letto e riuscire a dormire solo dopo due bicchieri di Jack Daniel’s che almeno rendevano ovattate le parole di mia moglie.
Quando ho visto Helena mi sono fermato.
La nebbia la faceva sembrare una visione, distinguevo solo i lineamenti sinuosi del suo corpo, e quando si avvicinò alla mia macchina vidi anche i particolari del suo viso dalla carnagione bianchissima. Improvvisamente sentii dentro di me che doveva essere mia.
Nel suo italiano masticato male mi ha chiesto cinquanta euro per mezz’ora d’amore ed io che quei soldi avrei dovuto tenerli per la bolletta del riscaldamento mi sono sentito tutto ad un tratto in diritto di spenderli per un po’ di libertà. Una volta tanto. Sgobbavo da mattino a sera; e me lo meritavo.
L’ho fatta salire e siamo partiti. E’ stata lei a indicarmi una piccola svolta a destra dietro la zona industriale. Ho fermato la macchina senza dire un parola. Siamo passati dietro, ho buttato i sedili anteriori in avanti e per fortuna questa vecchia carretta all’occorrenza diventa spaziosa. L’ho spogliata con foga. Eccitato. Non vedevo un corpo cosi perfetto da anni. Il suo sguardo era assente, perso nel vuoto. L’ho presa per il collo con la mano destra per crearle quel po’ di paura necessaria a essere partecipe a quel momento. Sembrò risvegliarsi da un sonno profondo e mi ha guardato con disprezzo e paura. Fin quando si è seduta su di me e ha incominciato a muoversi. Accarezzavo la sua schiena. Aveva un tatuaggio bellissimo. Un Angelo col viso di donna con l’espressione triste che le partiva da poco sopra il fondoschiena per aprire le ali sulle scapole.
Il sesso non durò mezz’ora. Forse cinque minuti. O meno. E poi non riuscii a trattenere il piacere.
Si rivestì. Le dissi che avevo ancora venti minuti a disposizione. E che avevo voglia di parlare.
Le ho raccontato di come mi sentivo, di quanto mi mancava la mia terra, e di come questi paesaggi tetri, questa vita senza amici, tutta casa e lavoro, mi avessero reso una persona cupa. Certe volte mi sembrava di confondermi con la nebbia. Come quando la sera tardi col buio non riesci a distinguere nulla, e ti sembra di avere uno spazio delimitato dal nulla intorno e poi per forza di cose in quel nulla ti ci devi buttare e lo fai con la paura di un bambino.
Parlando con lei sentivo il cuore farsi più leggero. Tenevo tutta quella tristezza dentro da davvero troppo tempo.
Questo mio modo di fare forse l’ha conquistata, perché alla fine mi raccontò anche lei la sua storia. Era nata in una città della Slovenia, da una famiglia povera e suo padre a quindici anni l’aveva venduta a dei suoi amici che a loro volta, dopo averne abusato per settimane, l’avevano portata da altre persone. E dopo svariati viaggi l’avevano lasciata in mano a un gruppo di italiani, a Genova, con altre ragazze, rinchiusa in uno stanzino, quasi senza cibo per settimane.
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