Gliene dò il doppio, e gli dico di pagarsi una vodka anche per lui.

Nel locale non ci sono facce strane. Solo habitué. Comunque esco dal retro. Non si sa mai. E nel cortile c’è la mia macchina posteggiata.

Natasha fa la cubista in discoteca. E quando capita anche la puttana. Dice che non è vero. Primo perché è fidanzata con me, secondo perché non vuol sentirselo dire, e basta. Però quando le capita di essere agganciata da qualcuno che ha perso la testa per i volteggi del suo serpentello tatuato tra coscia, inguine e ombelico, lei incomincia a sorridere con il taglio delle labbra carnose che arriva fino alle orecchie. A patto che sia uno con qualche soldo da spendere per concludere in bellezza la serata. Io ci soffro, ma ogni volta che tocco questo argomento lei scrolla le spalle, mette su il muso, e non mi parla per una settimana.

Natasha arriva dal Kazakistan,. Ha i capelli corti e gli occhi trasparenti e ovali che sembra una cinese. Sono azzurri come il freddo d’inverno tagliato dal sole. E un paio di caviglie sottili come calici da champagne. Ma dentro non c’è nulla. Se non il gelo di una stupida convinta di saper conquistare il mondo. È sola, seduta su un divanetto davanti a un bicchiere, e stretta dentro una gonnellina nera sollevata fin sull’inguine.

Quando mi vede allarga le braccia. Mi stringo per superare il muro di clienti che si muove lento per la sala. L’house è sparato a palla, e quadri di luce colorata rompono gli spazi creando un senso di ubriacatura.

“Qui dentro c’è troppo casino…” Le urlo stringendola ai fianchi.

“Hai fatto?” mi dice.

“Tutto.”

“Fammi vedere.”

“Non certo qui dentro.”

“E dai… solo per un minuto… non resisto.” Lei incomincia a fare le fusa, e io tiro fuori la busta dalla tasca.

“Voglio vedere.” Urla palpandola.

“No… lascia perdere.”

“Aprila appena… che dò un’occhiata veloce.”

Natasha è bella, e io non riesco a dirle di no. Mai. Soprattutto quando ce l’ho addosso, e quando ho sotto gli occhi quelle gambe infinite che stuzzicano desideri profondi. Lei questa cosa la sa. Taglio il bordo della busta con la punta di una chiave. Me la strappa di mano subito. Sbircia dentro e fa frusciare l’unghia sul bordo delle mazzette di soldi.

“Ci sono tutti?”

“Sì. In pezzi da cinquecento...”

Natasha replica con una smorfia e si irrigidisce.

“Non mi fido… voglio contarli… ”

“Non qui… aspetta… cazzo…”

Ma lei si è già alzata dal divano. Sguscia via come il serpente tatuato. Mi alzo anch’io, e sento la pressione di una mano sulla spalla. Riconosco il profilo di Vittorio, una specie di gorilla calvo in maglietta blu attillata con scritto sex and love.

La morsa è forte. Può farmi male se mi muovo.

“Stai attento piccolino mio – mi dice Natasha dilatando le labbra in un tentativo di sorriso - Vittorio fa presto ad arrabbiarsi… non vorrei che ti facesse male… sai, ieri sera sono stata a letto con lui e gli ho detto che non ti voglio più vedere e se oggi ti trovava qui con me non doveva permetterti di venirmi dietro… soprattutto se vado in bagno…”

Se ne va. E Vittorio molla la presa. Mi dice di andarmene, e se mi vede ancora lì dentro mi spacca in due. Anch’io ho solo pochi minuti di tempo per sparire, prima che Natasha possa accorgersi della sorpresa, e diventare davvero pericolosa… così gli dico …ok …stai calmo…

Appena fuori l’aria notturna di Milano mi colpisce in faccia come uno schiaffo. E i pensieri si placano, senza il bombardamento della discoteca. Corro verso il posteggio, mi infilo veloce in macchina e accendendo il motore penso che Natasha ha sempre avuto il vizio di fare tutte le cose con troppa fretta, e la sua voglia di fregarmi si poteva leggere in ogni centimetro quadro del suo fascino. Mi spiace aver perso lei, le sue labbra, e le sue caviglie.

Il lavoro fatto dal figlio di Oscar con la grafica del computer e la fotocopiatrice per stamparmi i pezzi da cinquecento forse valeva ben più di duecento euro. Roba d’artista.

Mi tocco la tasca interna. Il biglietto c’è. Parigi Toronto. Non per la Costa Azzurra come voleva Natasha. Partenza domani sera. Meno di ventiquattr’ore. Ma devo stare all’erta, lontano dalle grinfie di Mimmo Corona e da quelle di Natasha. E non so chi dei due può essere più pericoloso.

Mi scappa da ridere a pensare che lei credeva di avermi in pugno solo perché lasciavo che andasse a letto con i suoi clienti e non le dicevo mai di no quando faceva la gatta smorfiosa. Forse stasera volevo solo farle uno scherzo, spaventarla, così per gioco, ma non mi ha dato il tempo di spiegarglielo. Rido anche pensando che è andata a letto con quella specie di gorilla di Oscar per niente.

Guido nei viali di periferia spezzando la notte con i fari. Non c’è niente di trasparente in questo buio, calato all’improvviso come un liquido nero vischioso. Forse è solo un’impressione. Perché adesso ho paura, una paura talmente forte che mi sembra di avere un topo che mi rosicchia la pancia. E so che mi farà compagnia dall’imbocco dell’autostrada fino in Francia.

Un primo cartello verde in fondo a via Novara indica la direzione di ogni autostrada possibile. Imbocco lo svincolo e guardo il display con l’ora. L’una e un quarto. Venti ore da qui al volo non sono un’eternità, ma prima che sia domani c’è ancora tutta la notte da riempire.