Filmone che scorre placido placido questo American Gangster di Ridley Scott. Lo si guarda con il rispetto che si deve ai filmoni appunto, ma ci si accorge anche che gli manca qualcosa, quel qualcosa capace di scolpirlo nella memoria, al punto che la cosa migliore da fare è dimenticare a spron battuto i paragoni che sono stati fatti con Il Padrino, ingiustificati e non tentare nemmeno di accostarlo a film come Il braccio violento della legge e Traffic (per citare i primi che vengono alla memoria…).
Messa in scena per due ore e trentasette minuti la robusta sceneggiatura di Steven Zaillian (Schindler’s List, Mission Impossibile, Gangs of New York) che girava tra gli addetti ai lavori da almeno quattro anni (alla quale si può rimproverare forse una eccessiva superficialità nella messa a punto delle figure secondarie…), il risultato è la vera contesa che vide schierati su opposte barricate due veri personaggi. Il primo è Frank Lucas (cui dà vita Denzel Washington con un’interpretazione austera), prima autista nonché guardia del corpo di un boss della malavita newyorkese, poi boss lui stesso del traffico di droga negli Stati Uniti tra il finire degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. Frutto dell’irresistibile ascesa di Lucas, esempio in “negativo” della perfetta realizzazione del sogno americano, fu uno stile di vita rigoroso che applicato agli affari divenne una “vision” rivoluzionaria per quei tempi, la decisione cioè di importare l’eroina direttamente dal Sud-Est asiatico così da abbattere i costi degli intermediari e garantire ai consumatori una qualità della “sostanza” nettamente superiore a quella di qualsiasi altro concorrente, così come rivoluzionaria era il modo con il quale la droga giungeva a destinazione, addirittura occultata dentro le bare che riportavano a casa i cadaveri dei soldati americani caduti in Vietnam. Il secondo personaggio è l’incorruttibile detective Richie Roberts (Russell Crowe, la cui performance è assai lontana da quella di Inside…). Malvisto dai colleghi proprio per via della sua incorruttibilità, riuscirà dopo una lunga indagine (alla quale il film dedica poco spazio…) ad inchiodare Lucas alle sue responsabilità (successivamente gli scherzi della vita lo faranno diventare, dopo una prima condanna di Lucas a 70 anni di carcere ridotti in un secondo momento a 15 e dopo che lo stesso Lucas contribuì a smascherare la corruzione nella polizia, prima suo difensore, poi suo amico).
Seguiamo le vicende dei due rivali, diversi come il giorno e la notte (Lucas, disciplinato, signorile, patriarcale, Robers, anarchico, individualista, dalla vita privata assai disordinata…), vicende che la sceneggiatura tiene rigorosamente separate per lunga parte della storia, fino a quando Lucas, protagonista di una vista molto sottotraccia nonostante il denaro accumulato, cedendo per una volta alle lusinghe del successo si presenta agghindato con una pelliccia di cincillà all’incontro di boxe tra Alì e Frazier. Sarà sufficiente quell’unica uscita pubblica per farlo finire nella lente investigativa di Roberts che di lì in avanti non gli darà tregua fino al redde rationem di prammatica, a dire il vero incruento e piuttosto beffardo.
Ci siamo ma al tempo stesso non ci siamo, perché la domanda che abbiamo posto all’inizio è ancora in cerca di risposta. Insomma, perché si ha l’impressione che American Gangster nonostante sappia allestire uno spettacolo più che dignitoso ha numerose difficoltà a “raggiungere”, anzi ad “aggiungere”, qualcosa a quella personalissima idea di cinema che ognuno di noi si porta dentro? Forse perché lo sforzo notevole profuso per allestire la rappresentazione (sono state scovate decine e decine di locations dove far rivivere gli scorci di Harlem o Brooklyn dell’epoca del film, la Grande Mela tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70…) non ha lasciato spazio sufficiente per ricreare anche quel calore necessario a fare di una “rappresentazione perfetta” una “rappresentazione capace di rimanere”.
È un peccato, ma è così…
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