La prima cosa a cui ho pensato quando mi è stato proposto di scrivere questo articolo è che su Dexter Morgan ci sarebbe davvero tanto da dire. Sono talmente ampi e considerevoli gli spunti di riflessione, le particolarità, le sensazioni proprie di questa straordinaria serie drama americana che ho avuto da subito paura di non riuscire a dire tutto come vorrei. Il rischio è sicuramente quello di tralasciare qualcosa, magari di importante, e di non riuscire a rendere al lettore un’immagine ben precisa e fedele di ciò di cui si sta parlando. Il che sarebbe un peccato. Sarà il caso di proseguire cautamente, con ordine e attenzione.
Tratto dal libro di Jeff Lindsay, La mano sinistra di Dio, ci ritroviamo a poco a poco coinvolti nelle vicende di un omicida seriale, Dexter appunto, palesemente lontano da quelli a cui la tv o, purtroppo, la cronaca nera ci hanno abituati. Siamo di fronti a una figura del tutto nuova nel panorama televisivo, non solo per il ruolo che ricopre, ma anche per le mille sfaccettature tipiche di una intricata e disturbata personalità. A cominciare dal lavoro che fa, Dexter Morgan è un paradosso: egli è infatti un ematologo della Polizia di Miami, quasi a voler sottolineare ulteriormente l’invisibile, ma indissolubile legame con il sangue. Sociopatico, insensibile di fronte a qualsiasi forma di sentimento, obbligato a convivere con i suoi drammi, il nostro killer porta una maschera che gli consente di relazionarsi al meglio con Deborah, sua sorella, anch’essa poliziotta, Rita, la sua fidanzata e il resto del cosmo. Una maschera che, come tutte le maschere, non sarà destinata ad avere valenza eterna. A parte ciò, Dexter è senza ombra di dubbio un abile investigatore, dotato di grande intelligenza e intuito, rivelandosi spesso decisivo nella risoluzione dei casi più difficili. Appartiene alla categoria dei Serial Killer, ma a parte questo non ha nulla in comune con colleghi del calibro di Ted Bundy, Jeffrey Dahmer o Donato Bilancia.
Il criterio secondo cui Dexter seleziona le proprie vittime gli è stato insegnato da Harry, suo mentore e padre adottivo, che ha cercato di contenere e addomesticare l’impulso fisiologico omicida rivelato dal figlio fin da verdissima età. Questo vero e proprio codice, a cui Dexter rimane costantemente fedele, stabilisce che ci sono alcune persone “meritevoli” di morte che la legge lascia impunite. Ecco che allora assassini di ogni genere, a spasso per le strade di Miami, sono semplicemente in attesa di sentenza. Morte sicura, prima di finire come macchie di sangue sulla collezione privata di vetrini che Dexter tiene nascosta nel condizionatore di casa a ricordo delle sue vittime. O forse a ricordo di ciò che lui è davvero. Perché Dexter è, prima di ogni altra cosa, un serial killer. Come Clark Kent è Superman, prima di essere un giornalista. E l’analogia con i supereroi (in un episodio si farà riferimento perfino a Cristo) non è poi cosi distante dalla verità. Dexter combatte il male, anche se in un modo nuovo, diverso, efferato. Anche se è lo stesso male che si porta dentro, in uno spazio fra l’animo e il cuore.
Lo spettatore si troverà spesso a combattere una sorta di guerra interiore, in cui saprà, nonostante tutto, giustificare e assecondare le azioni e le scelte del killer, assaporando, con qualche brivido, la strana sensazione di accettare qualcosa che solitamente, rispettando l’ordine delle cose, sarebbe inevitabile tanto quanto naturale temere e condannare.
Sono convinto che la forza di questo telefilm sia da ricercare, oltre che nell’originalità dell’idea e della sceneggiatura, e nella bravura di attori già rodati come Michael C. Hall, Julie Benz o Jennifer Carpenter, nelle numerose occasioni che lo spettatore ha per poter concedere spazio a una riflessione, all’assumere una certa posizione, sapersi emozionare o semplicemente per confrontare il proprio vissuto con situazioni e stati d’animo in cui si calano i protagonisti della serie. Senza per forza dover tenere a bada una personalità un po’ troppo complessa. Senza dover essere a tutti i costi un serial killer.
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