Sveglia al canto degli uccellini, ho una mano sulla tastiera e con l’altra sorseggio la seconda tazzina delle sei e un quarto. La prima dose che accende le sinapsi l’ho presa pochi minuti prima uscendo dalla doccia. La vasca no, non la trovo igienica. Il getto d’acqua continuo mi aiuta a cacciare i cattivi pensieri della notte. Chi lo ha detto che la notte, quando maturano le peggiori nefandezze, porta consiglio? Ho sempre provato paura e fascino per le ombre che non vedi ma senti nel buio di una città così gotica e sotterranea. Così ipocritamente solare dove la luce del giorno che una volta si chiamava sole non illumina gli angiporti e non riscalda i seminterrati. E sono ancora tanti i bassi abitati, i grattaterra come preferisco chiamarli. Dove le nonne e le donne della mala una volta conservavano le “bionde” e ora nascondono armi e droga.
Sonno e qualche incubo che racconto. Con le ombre ho un rapporto di conflitto e di amicizia, di angoscia e di stimolo. Fisiologica contraddizione come la città nella quale vivo da sempre. La mia città è Partenope Amoreodio anche se sono nato all’ombra del Colosseo da madre e padre partenopei per un incidente anagrafico. Piacevole incidente perché nella capitale sono praticamente di casa.
L’ossimoro urbano di nome Napoli, il mio Amoreodio, dove luci e ombre, sole e sottosuolo, fede e superstizione convivono ogni giorno, si concilia con il mio carattere e con le mie paure. Patofobia più che necrofobia adesso. Paura del disfacimento e della dipendenza. La fauna di quaggiù è una categoria filosofica che ha scoperto il modo di esorcizzare il count down della vita. L’amara allegria che aiuta a stare sempre in piedi, a non fermarsi mai. Il moto perpetuo allontana i cattivi pensieri, i piedi gonfi fanno passeggiare la testa e accendono le idee.
Mi muovo a piedi, come il mio alter ego protagonista dei miei romanzi, il commissario Abruzzese. Il contatto della terra mi aiuta e lo aiuta a capire. Sempre più difficile in una metropoli invasa dal ferro e dalle ruote. Camminare tra la gente è il mio pensatoio. Tra la gente e le orribili cose che ci accerchiano, i cumuli di rifiuti, l’aria irrespirabile, i morti ammazzati, gli scooter che ti sfrecciano di lato e ti sfiorano e più di una volta ti ammazzano. Non ci sono vigili nel senso che difficilmente li vedi, non ci sono più marciapiedi, ormai marciascooter diventati corsie preferenziali delle due e a volte quattro ruote.
Il giornalista e lo scrittore convivono senza invadenze reciproche. Il mio giornalista è più diurno, il raccontatore preferisce viaggiare sui percorsi bui della notte. L’inquietudine la combattiamo insieme io e il mio narratore con la scrittura e i personaggi che si avvicendano sulla scena di carta. Soprattutto i perdenti mi danno un po’ di coraggio e l’indignazione per continuare.
Andare a piedi significa anche il metrò per spostarmi con il corpo e ogni tanto con la mente nel cuore del mio grande amore. Tra un attimo vi dirò chi o che cosa. Trasporto integrato con autobus, metrobus, pedibus. E la funicolare per una visione d’insieme dalla collina. Scrive Calvino che «le città, come i sogni, sono fatte di desideri e di paure». Gli stati d’animo e i cambiamenti sono percepibili soprattutto nella realtà e nella dimensione urbana delle “città invisibili” in continua trasformazione.
Come dicevo ho un’amante ora non più segreta che mi aspetta. Paris, mon amour, nonostante tutto, nonostante i mutamenti, stavo per dire le mutazioni di questo organismo fatto di pietre e di carne umana. La Sorbona e il quartiere latino, i suoi odori e sapori levantini. San Martino sul Vomero come Montmartre e il Sacre Coeur. Anche la metropoli gastronomica che mi aiuta a capire: Parigi sul modo di scegliere le pietanze e Amoreodio sul modo di gustare con le papille e la mente.
E poi? Marsiglia così simile non a Parigi ma alla città in riva al Vesuvio. Dove convivono antica Grecia e da sempre strabismo mediterraneo con lo sguardo un po’ così rivolto a oriente. La Canebière come il Rettifilo, i vicoli del Panier a ridosso del Vieux Port come il Pallonetto e Santa Lucia. Miseria e insieme ricchezza come una provocazione.
Un po’ di Parigi ce l’ho comunque in casa con la mia metà, insegnante di francese e cucina agrodolce dopo un incontro a un corso di lingua, letteratura e civiltà francese alla Sorbona. Autrice di quattro brevi racconti mystery tra streghe e assassini di ieri e di oggi e di un romanzo autobiografico ambientato nella Calabria post-bellica. La prima severa lettrice dei miei romanzi con grandi litigate e chiarimento finale.
Con il cibo ho un rapporto più mentale, molto palato e poco stomaco. Se posso preferisco lo slow food. Detesto la carne. Il mainstream gastronomico del fastfood lo fronteggio comunque con l’underground, diventato sempre meno stereotipo, di un piatto di vermicelli a vongole o di fagioli nella pasta mischiata. I due estremi senza vie di mezzo. Il tutto nella variante personale di molto peperoncino e niente pepe. Rompere una mezz’ora di massificazione può aiutare a ritrovare la carica giusta in una delle vecchie trattorie della città alta o sui Quartieri e in una passeggiata salmastra sulla costa, un desiderio mai soddisfatto. Non sono un cucinatore, non ne ho mai avuto il tempo o l’opportunità per cominciare. Forse anche questo un hobby sempre rinviato. La chitarra invece l’ho cominciata da ragazzo e ogni tanto scarico qualche litro di tensione. Odore di mare più che sapore di sale, da ottobre a maggio, il resto assai meno. Il mio mare appartiene all’inverno, la montagna (tutt’al più) all’estate: la stagione delle orribili creme e tintarelle, noiosi ombrelloni e sabbia di polvere, culi flaccidi e rughe oleose. Il Mare da solcare e affrontare è il mio mare, la lotta con la vita e per la vita, le sfide leali in quest’ultimo lembo di esistenza dignitosa come direbbe Hemingway. Al corpo non dedico particolari cure oltre al moto e due o tre minuti di esercizio soft al mattino. In compenso sono magro.
E l’abbigliamento? Il più idoneo per conciliare il pedone con i suoi pensieri è per metà classico e sportivo. Giacca scura e jeans e magari per una notte vorrei essere un uomo invisibile, ma non l’Uomo Invisibile, il fisico Griffin del racconto di H.G. Wells trasposto nella pellicola in b/n di James Whale. Sarebbe reale il rischio di disprezzare tutti i simili e diventare antisociale. Mi accontenterei invece soltanto per una notte di un’invisibilità mirata per spaventare e mandare fuori di testa i veri mostri che torturano i povericristi, li sfruttano e sguazzano nel malaffare e sono tanti. Farli sparire non credo, li metterei in piazza per il pubblico ludibrio. Parlo di una certa borghesia affarista sempre pronta a confondere le vittime con i carnefici. Mi sembra corretto in proposito il mio profilo narrativo apparso anche su Wikipedia, un identikit abbastanza aderente dove di me leggo: "Le trame dei suoi libri si svolgono in una società corrotta e malata che vuole trasformare le vittime in carnefici e coprire i colpevoli con una complicità tutta borghese. Fa da sfondo alle storie, anche quando non è protagonista, una criminalità organizzata che ha sempre avuto vita facile nella metropoli all'ombra del Vesuvio". E invisibile anche per fini erotici? L’ipotesi mi alletta e la risposta temo che sia affermativa. Ma c’è il pericolo che appena tornato tra i visibili, il compare della dark lady mi farebbe fuori con una pera sparata in vena tutta in una volta o una scarica di pallettoni.
Napoli è terra di drammi e di commedia nera, del paradossale e del grottesco, luogo naturale per avventurarsi nella scrittura investigativa. La comicità è un trucco per nascondere la tragedia di un popolo. Ho detto che l’uso dei piedi diventa una fonte inesauribile di idee originali e consente un rapporto diretto con la materia prima. Ovviamente non mi limito a prendere tutto alla lettera dalla vita reale. Come ho scritto in Come scrivere un giallo napoletano, una storia la plasmo, la trasformo con la mediazione dei processi mentali e della fantasia, delle sensibilità e della visione personale. L’uso della fantasia è un ingrediente essenziale della fiction anche realistica, mentre sarebbe un difetto grave per un articolo di cronaca.
Ma come ho cominciato a scrivere?
Ricordi brutti e belli. Mi decisi a buttare giù la prima storia quando credevano che Napoli fosse ancora la città delle serenate e dei cieli tersi, della buona ospitalità e della sceneggiata. E invece… Mi convinsi che tornava a essere la città nera dell’Ottocento, di Ranieri e Mastriani, di Salvatore Di Giacomo e Matilde Serao quando furono trovati i cadaveri di un uomo e di una donna crivellati di colpi in un ristorante. Si sospettò poi che erano due corrieri internazionali di droga. Il mio primo romanzo allora aveva un altro titolo (Sciacalli sul golfo) e io non avevo più di venticinque anni. Era scritto nella forma del romanzo reportage. Mondadori lo voleva pubblicare, me lo rispedì chiedendomi di rinunciare alla forma dell’inchiesta: allora non era ancora di moda. Comunque era un argomento forte e nuovo per Napoli, le distillerie di eroina tra Palermo e Marsiglia e l’importante mercato di snodo commerciale della metropoli partenopea. Intanto passava il tempo. Lo mandai a un altro editore, altro tempo. Non mi dilungo. L’editore chiese comunque un giallo, non a me, sulla città. Buttai il libro nel cassetto delle delusioni, ci rinunciai. Rimase lì dentro per qualche anno fino a quando lo lesse lo scrittore Luigi Compagnone al quale piacque molto e lo segnalò a Camunia. Compagnone scrisse la prefazione al libro che vinse anche il Noir in Festival. Il titolo: Il diavolo giallo. Poi gli altri, sempre su storie forti e attuali. Il terno di San Gennaro (premio Napoli in giallo e premio speciale Procida-Isola di Arturo-Elsa Morante), ambientato in piena tangentopoli partenopea; Un mistero occitano per il commissario Abruzzese (finalista allo Scerbanenco), tra inquisizioni e integralismi passati e presenti, scritto alla vigilia dell’11 Settembre. Visione profetica? Può darsi. Vendesi Napoli (il più votato dal popolo dello Scerbanenco) sulla svendita del patrimonio artistico e paesaggistico, le degenerazioni pubbliche e private. Una città in balia di chi vuole stravolgerla e cancellare la memoria storica. Alla fine cercheranno di salvarla gli emarginati, i senzaniente, i barboni depositari dell’archetipo che si tramanda. Protagonista dei miei romanzi è il commissario capo Abruzzese. “Un extracomunitario venuto dall’Abruzzo” lo definì Compagnone. “Un Maigret di Napoli con una sua filosofia” come ha scritto la Repubblica. Sono in attesa di pubblicare l’ultima storia dove questa volta il protagonista sarà uno dei personaggi del precedente romanzo nei panni di un investigatore privato. Ho scritto numerosi racconti e una raccolta di sedici brevi storie. Tra mystery e gotico napoletano.
E come comincio un nuovo romanzo?
Realtà e fantasia alla fine si conciliano in un patto scritto su dei foglietti (non sono pizzini!) dove fisso i punti essenziali, l’idea che nasce per svilupparsi sulla pagina, le descrizioni d’ambiente: l’anima dei luoghi si trasforma nei luoghi dell’anima con l’ironia e la metafora. Un’idea, una frase l’annoto immediatamente. Quando sono pronto per la grande avventura preparo i miei lenzuoli di carta che mi piace chiamare timone narrativo. Scritti con la penna in caratteri grandi. Il PC viene subito dopo e comanderà sovrano fino al termine. Plasmando, trasformando, rinnegando. Il finale come sempre cambierà, deve diventare soprattutto per me un imprevisto, una sorpresa. Qualche volta si instaura un rapporto anche conflittuale con la scrittura. I personaggi vogliono prevaricare e comandare e quando ci riescono ce n’è qualcuno di troppo da eliminare. Le idee riesco sempre a farle convogliare abbastanza fedelmente nella parola scritta. In un thriller occorre governare un po’ di più la pagina, non lasciarsi prendere troppo la mano. Anche perché, scusate l’inciso tecnico, pure quando scrivo un noir per come lo intendo nell’era post-industriale, i conti devono tornare. Per le sbavature c’è spazio in altri dove, per esempio nel pulp e nello splatter. Lo so bene che il giallo e il noir sono stati sempre considerati antinomici. Il ritorno dell’ordine o il disordine e l’angoscia. Ma la vita cambia, in trent’anni sono accadute tante cose, si avverte sempre più il bisogno di qualcuno che si faccia carico della scoperta della verità. Poi accadrà che i soliti noti gli metteranno il bastone tra le ruote. Delitto senza castigo in un modo o nell’altro, assoluzione o prescrizione. Anche questo è noir. Può succedere che a conclusione delle indagini venga condannato un innocente.
Tanta è la carne a cuocere che non mi è mai capitato di provare il terrore della pagina bianca, la sindrome da stallo. In caso contrario avrei fatto ricorso a un saggio suggerimento di Chandler che in questo caso di estrema emergenza propone di far irrompere sulla scena un personaggio armato di pistola. Credo che da un po’ di tempo stia accadendo con una certa frequenza nelle soap tv. Dove si assiste in modo ormai ripetitivo al personaggio mandato in coma da un incidente d’auto o da un proiettile vagante!
Più frequente l’imbarazzo della scelta fra due o più sbocchi narrativi, una crisi di abbondanza può risultare un freno. Nella sindrome da stallo, nel mio manuale suggerisco di cercare di individuare le cause. Il blocco può dipendere dai personaggi e dalle loro azioni noiose statiche o senza vie d’uscita. Per carità con la crisi da stallo mi fermo qui.
Il mio lavoro narrativo, come ho detto in apertura, comincia al mattino molto presto e rimango più o meno tre ore incollato alla tastiera. Quando posso e ne ho voglia riprendo nel primo pomeriggio intorno alle quindici. Lavoro di rifinitura o vado avanti se ho un’idea che vale la pena di essere coltivata. Solitamente per la stesura di un romanzo impiego quattro o cinque mesi. All’aspetto editoriale mi sono sempre dedicato dopo l’ultima stesura. Ora ci pensa il mio agente. Prima di essere veramente sicuro di aver finito provo a sforbiciare, a sfrondare. Continuando a tagliare o cambiando anche una sola parola se accade di stravolgerlo, il romanzo è pronto per essere spedito. Anzi per essere letto dal mio censore e lettore di thriller che come vi ho detto è la mia metà.
C’è un aspetto non marginale che penalizza lo scrittore rispetto allo sceneggiatore. Parlo della mia esperienza: il narratore quando lavora è solo con la sua storia. L’isolamento nella scrittura fa aumentare il bisogno di stare con gli amici e tra la gente nei momenti di pausa.
Ho dei rimpianti per il tempo passato sulla pagina scritta. Il tempo andato via e sottratto alle persone più care e agli amici. Sono scomparsi i genitori da un po’ di anni, prima mia madre. Il vuoto non si colma con il tempo. Ho potuto godere fino ai vent’anni dell’affetto dei miei nonni materni. Molto meno di quelli paterni: ricordo mio nonno quando avevo sei o sette anni, faceva l’architetto ed era soprintendente alle antichità. Mi è rimasto impresso un teatro San Carlo in miniatura che si era costruito completo di pupi.
Il papà di mia madre faceva il dentista e per noi nipoti ogni domenica che si andava nella sua labirintica casa studio era un’esperienza nuova. A volte da bambini, eludendo la sorveglianza dei grandi, entravamo in uno dei due gabinetti odontoiatrici e giocavamo con l’apparecchio radiografico. Devo aver scaricato sul mio corpo non so quante radiazioni ignorando che fosse un gioco pericoloso. Un altro passatempo che avevamo scoperto in questa singolare stanza dei sogni era una specie di mastice molto dolce usato, come calco nelle protesi, che facemmo diventare chewing gum. Una scena lugubre che non dimenticherò mai e che ha ispirato un mio racconto gotico riguarda il giorno della sua morte. Finito nel sonno alla veneranda età di novant’anni. Si discuteva nella stanza attigua dell’ora presumibile del decesso. Mentre mio zio anche lui dentista e l’altro mio zio, magistrato, ateo e fratello di mio padre discutevano di questo mi accorsi di un fatto eccezionale. L’orologio del soggiorno ormai fermo da molti mesi (mio nonno gli aveva sempre dato la corda fino a quando decise di andare a riposo per raggiunti limiti di età), all’improvviso si mise a camminare: le sfere, entrambe le sfere cominciarono a girare a una velocità inaudita. Si fermarono sulle quattro e venti nel momento in cui i miei due zii si stavano chiedendo l’ora della morte. Mi alzai, urlai: "Guardate, guardate l’orologio!". Il magistrato si alzò, prese dal taschino la lente d’ingrandimento, esaminò le sfere e l’orologio e, lui ateo, concluse: "Ci avrà voluto rivelare l’ora del trapasso".
Sono sempre stato impegnato nella tutela dei diritti diffusi. Quello che chiamano volontariato. Sono laureato in sociologia a indirizzo giuridico con una tesi sulla pena di morte. Ho fatto parte di quattro comitati di redazione, sono responsabile per la Campania e membro del direttivo nazionale del Sindacato degli Scrittori (Sns), nonché membro dell’European Ombudsman Institute (EOI), istituto scientifico di studio della difesa civica europea. Alla Sorbona di Parigi come vi ho detto ho approfondito la conoscenza di lingua e popolo francesi. Ho lottato sempre per me e per gli altri anche sul posto di lavoro, una vita un po’ dura soprattutto per i familiari che sulla pelle avvertono il bruciore delle tue ferite.
Da giornalista di cronaca ho raccontato vicende e degenerazioni quotidiane per trent’anni come redattore del maggiore giornale napoletano e per due lustri come corrispondente del maggiore giornale romano con servizi pubblicati anche in prima pagina. Da questo lavoro ho capito una cosa molto importante: nessuno ti regala niente e se sgobbi non basta perché il giorno dopo dovrai farlo ancora di più. La giungla d’inchiostro è una fucina importante per plasmare caratteri. Se fosse dipeso da me il servizio di leva lo avrei fatto svolgere nella redazione di un giornale.
Le mie due facce di giornalista e scrittore non potevano non sfociare nel mostro a tre teste con la saggistica che ne diventa un po’ il punto d’incontro, la via di mezzo. Il fastidio per la routine, la curiosità e la febbre per le verità nascoste mi hanno tenuto impegnato accanto alla narrazione investigativa con la ricerca. Nessuno aveva detto che Napoli è la patria storica del giallo italiano, che il primo romanzo a tinte nere è stato scritto dal napoletano Mastriani. Ho cercato di farlo io. Ho anche scoperto un Leopardi inedito che scrisse due odi a sfondo giallo ispirandosi a dei fatti di cronaca. Un Leopardi giallista! Mi sono anche deliziato a scoprire che il poeta del dolore universale aveva una formidabile conoscenza di vulcanologia.
Ora devo andare, è il momento del mio passatempo preferito, viaggiare mi rilassa molto.
Massimo Siviero, 1942. Italia. Giornalista, scrittore e saggista. Autore di romanzi polizieschi di successo, rigorosamente napoletani doc. Tra gli altri titoli ha scritto Vendesi Napoli (2005) e Come scrivere un giallo napoletano (2003), un manuale di istruzioni per la scrittura thrilling. Ha approfondito per la prima volta lo studio di una tipologia letteraria molto speciale e con regole altrettanto speciali: il giallo napoletano. (MS dal DizioNoir)
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