Sono un essere razionale: la ragione e un certo senso dell'understatement costituiscono l'impalcatura della mia personalità. Ad esempio, io non ricordo mai, dico mai i sogni che faccio, né mi sveglio lentamente, girandomi e rigirandomi nel letto. Tac!, apro gli occhi e sono sveglio. Due secondi e il sogno affonda per sempre nell'inconscio. Fine. Qualunque cosa abbia desiderato il lato oscuro di me durante la notte, viene accuratamente chiuso, ben piegato, in un cassetto di cui non ho la chiave. Dicono che questo sia caratteristico delle persone molto razionali. O degli schizofrenici, forse: ma siccome non custodisco mamme in cantina né mangio il fegato dei sondaggisti accompagnandolo con una bottiglia di chiaretto (cosa che a volte farei molto volentieri), va bene lo stesso.

Non soffro di paure particolari, non ho nessun marchio psicologico che, nell'immaginario collettivo, caratterizza l'autore di gialli o di suspense. In altre parole non temo il buio, i ragni, i luoghi chiusi, i confessionali, i preti, i coltelli e via dicendo. Naturalmente può essere che alcune paure siano ben nascoste nel mio subconscio, e che usciranno fuori un giorno o l'altro, ma per il momento sono ragionevolmente tranquillo.

Condivido invece con ogni essere umano alcune paure: le malattie, mie e soprattutto dei miei familiari, la miseria... un incidente che potrebbe cambiare una vita che trovo piacevole. Cose così.

Forse perché sono abituato a immaginare storie che partono dalla domanda "E se...?", queste normali paure si fondono in una leggera ombra che a volte offusca la mia percezione del futuro. Ruth Rendell diceva che ognuno di noi cammina su una sottile lastra di ghiaccio che lo separa dal dolore, dalla disperazione, e che questa lastra di ghiaccio può improvvisamente spezzarsi. E' quel che succede ai suoi personaggi, o a quelli di Simenon, per citare un altro dei miei scrittori preferiti.

L'imprevisto. Ecco, in fondo io ho paura di una sola cosa: l'imprevisto. E mi corazzo e ispessisco il mio animo con la razionalità, come Montaigne. Non basta, ma è l'unica difesa che ho e mi ci abbarbico.

La paura dell'imprevisto, unita alla razionalità per combatterla, genera in me un apparente cinismo. Io scherzo sulla morte, la malattia, i miracoli... sono politicamente scorrettissimo. Alberto Sordi che canta sulla tomba dell'attore di avanspettacolo, mentre tutti le ballano attorno, è geniale. Il barista Necchi, il chirurgo Sassaroli, il conte Mascetti e gli altri amici miei sono filosofi alla cui saggezza mi abbevero.

Ho la fissazione della puntualità (avrà sempre a che fare con l'imprevisto, suppongo: la cricca viennese non è comunque invitata al dibattito). Arrivo sempre in anticipo agli appuntamenti, nonostante abbia imparato che è inutile, perché nessun altro sarà lì a far due chiacchiere con me.

C'è un bel racconto di Roald Dahl sulla puntualità, ma finisce molto male, per cui non voglio ricordarlo qui. Però voi leggetelo, perché Dahl merita.

Ho un'ottima memoria, tranne che per le barzellette. Ma non la uso per ricordare scorrettezze subite. Il mio passato mi piace, ma non trascorro la giornata tra le madeleine, perché il loro retrogusto è amaro. Né mi balocco con le occasioni perdute, cerco semmai di non perderle. Mi faccio trovare pronto. Ad esempio, prima che la Mondadori mi chiedesse il seguito di Il Palazzo del Diavolo, l'avevo già quasi terminato.

Che il mio rapporto con il tempo sia particolare, lo si vede anche da quello che scrivo, romanzi di fantascienza o gialli storici. Futuro lontano o passato remoto. La contemporaneità mi sfugge: per parlarne, devo scegliere un punto di vista piuttosto eccentrico. D'altra parte, così rispose Umberto Eco a chi gli chiedeva perché avesse scritto un romanzo ambientato nel Medioevo: "Perché il passato lo conosco, il presente no."

 

Insomma, ho detto come mi vedo. Ma come appaio? Ah, saperlo! Mi dicono che all'inizio sembro piuttosto antipatico. Insomma, che me la tiro, che sto sulle mie. Mia moglie dice che sembro un dobermann. Sarà. Quando mi conoscono, però, di solito mi giudicano simpatico. Tant'è che mi dicono: "Ma lo sai che non sei affatto antipatico?", frase che fa pendant con l'altra: "Ma lo sai che non sembri nemmeno un ingegnere?" (Perché io sono un ingegnere. Come Gadda. O Stevenson: già, Stevenson aveva studiato da ingegnere, non lo sa nessuno).

Sto bene nelle compagnie scelte da me, sopravvivo nelle altre. Da solo sto benissimo. So stare in società, ma sto meglio a casa mia. In fondo sono un pantofolaio. Mi stanco solo a sentire tutto quello che fa Stefano Di Marino - che tra l'altro ha corretto le bozze del mio primo romanzo, ma non credo lo ricorderà.

Detesto la città in generale, e Roma in particolare. Io sono romano da otto generazioni, per questo posso permettermi di parlar male di Roma. Io ho bisogno di una città di provincia. Anelo al paese (collina o montagna, niente mare please, amavo il mare quand'ero più giovane). Bramo la frazione. Sogno il cocuzzolo. Se si potesse fare una petizione per la soppressione del Condominio, sarei il primo firmatario. Odio la maleducazione, e nelle città ce n'è in quantità industriale.

Però devo stare qui, alla galera, perché qui lavoro, in una società di telecomunicazioni. Se potessi vivere di scrittura, non starei certo a Roma.

Perché scrivo romanzi sulla Roma dell' 800? Ma perché quella era la Roma che mi piace, quella di Roesler Franz, mica questa di oggi. L'hanno restaurata. Con dei colori che va' a capire dove li hanno presi. Guardi piazza di Spagna e pensi: "Starò mica a Portofino?"

E lo scatolone dell'Ara Pacis? E perché ci sono i vestiti, nell'Ara Pacis? Dice: è una mostra. Allora fra un po' ci metteranno pure le Winx?

Il traffico, poi! Se prendo l'automobile, divento idrofobo. So che a molte persone vengono attacchi di panico, in automobile. A me no, a me vengono i nervi. Allora vado in scooter.

Mi piace mangiare, ma non so cucinare. Se mia moglie non c'è, vado da mia madre. In casi estremi, due uova al tegame le so fare. Comunque non sono un gourmet, non compro bottiglie di vino speciale né odoro i tappi, non decanto, non assaporo, anzi ingozzo tutto piuttosto in fretta.

Se c'è un piatto che adoro, è la pajata. Non mi piacciono i ristoranti dove le porzioni sono scarse, dove non c'è il vino della casa ma solo in bottiglia. In realtà, preferisco le bettole. Mi piacciono i camerieri spiritosi: una volta al Testaccio ho chiesto a uno che aveva di dolce, e lui mi rispose: "I piedi. Capirà, so' trent'anni che faccio er cammeriere!".

 

Quand'ero più giovane, tenevo molto alla forma fisica. Lo ammetto. Facevo jogging quasi tutti i giorni, mi abbronzavo come un ascaro. Ero un po' vanesio. Adesso no. Non ne ho il tempo. Adesso ho moglie e una bambina di cinque anni, lavoro, scrivo e dribblo il traffico: nun so' più a chi dda' i resti!

La passione per la scrittura è nata insieme a quella per la lettura. A me piace scrivere perché mi piace leggere. Leggere in realtà è l'unico vero piacere che ho: la lettura è forse la mia coperta di Linus. Io conosco il mondo perché lo leggo. Io mi accorgo che il carattere di un tale è simile a quello di Don Chisciotte perché conosco Cervantes, sennò quel tale resterebbe per me morto, inanimato, incomprensibile. Per questo, sostengo che la letteratura è autoreferenziale: i libri parlano di altri libri, e in particolare nei miei romanzi c'è sempre questo tema, questa suggestione. Citazioni, riferimenti, rielaborazioni di altri testi... un gioco intellettuale.

Serissimo, come tutti i giochi. Anzi, solo quando giochiamo siamo assolutamente seri.

Ma dicevo della lettura. Credo che il seme l'abbia gettato la mia maestra delle elementari, la signora Cleonice Limongelli, un nome che sa di scuola d'altri tempi. Ebbene, ricordo che la maestra ci leggeva qualche pagina di Quo Vadis, se eravamo stati buoni. Prendeva questo libro, lo posava sulla cattedra, lo apriva con gesto ieratico, ne toglieva un bel segnalibro... e leggeva. Era un premio.

Ecco, così credo sia cominciata. A causa di questa sacralità dell'atto del leggere. Ancora oggi, io detesto rovinare un libro aprendolo troppo e faccio collezione di segnalibri.

Sempre alle elementari, nasce in me il desiderio di raccontare storie, oltre che ascoltarle. A fumetti, però: io ho difatti, lo dico senza falsa modestia, un bel tratto. Ricordo di aver inventato Sagomix, una specie di Diabolik alla Jacovitti, e Edgar Poe, un detective tipo il Nick Carter di Bonvi (a quel tempo c'era Supergulp!). Al liceo, rifacevo a fumetti la Divina Commedia, con i professori al posto dei diavoli. Probabilmente, lo facevo per piacere agli altri: dopotutto, il narratore è un narcisista timido. Un po' come un attore che non vuol salire su un palcoscenico: si riprende a casa sua e ti manda la cassetta. "Guarda un po' se ti piaccio", dice: ma a distanza. Così fa lo scrittore, che brama un pubblico foltissimo. Non capisco come si possa scrivere per sé: "Io scrivo per me stessa e per gli sconosciuti", diceva Gertrude Stein.

Dal fumetto, passo presto ai racconti e ai romanzi. In realtà, la primissima cosa da me pubblicata è un racconto di spionaggio in appendice a Segretissimo, nel 1990. Credo di essere l'unico scrittore che abbia pubblicato su Segretissimo, Urania e il Giallo Mondadori. Sono anche l'unico che abbia vinto sia il Premio Urania che il Tedeschi.

Per vincere il premio Urania o il Tedeschi, dovete anzitutto scrivere un libro.

Io faccio così: delego tutto al mio inconscio. E' sempre lui che fa il lavoro duro, lo diceva anche Julian Jaynes. L'unico compito della mente cosciente è estrarre quei frammenti di idea su cui occorre lavorare e badare che al composto non manchino mai nozioni e documenti.

Quando ho chiara in mente una certa direzione della storia e soprattutto le prime trenta o quaranta cartelle, scrivo. Posso scrivere dappertutto, nel rumore o nel silenzio; e sempre, di giorno o di notte. Non ho mai avuto il terrore della pagina bianca, che secondo me è solo un modo per atteggiarsi degli scrittori. Non esiste il blocco dello scrittore. Perché dovrebbe esistere? Forse che l'idraulico soffre del blocco della guarnizione?

Esistono giornate sì e giornate no, come in tutti i lavori. Dice: e allora Hemingway? Hemingway non scriveva perché era depresso, mica era depresso perché non scriveva, rispondo. E comunque, non sono Hemingway. Io scrivo gialli e fantascienza. Sono solo canzonette, come ripete spesso il buon Mongai.

Il vero lavoro comincia quando ho il materiale grezzo, la prima stesura. Allora bisogna montare il romanzo, costruire bene gli agganci, i riferimenti, i tagli, i rimandi, le analessi e le prolessi, le strizzate d'occhio al lettore, insomma tutto l'ambaradàm della creazione letteraria. E' la parte più divertente.

Quel poco che so di scrittura, l'ho appreso da me. Non ho mai frequentato corsi: non dico che non serva, dico solo che non l'ho fatto. Ho letto molto e meditato su quel che leggevo. Sono anche stato fortunato: ho pubblicato quasi tutto quello che ho scritto. Ho un debito con Marco Fiocca, lui sa perché.

Adoro le scadenze! Se non ho scadenze, nicchio. Il massimo è quando mi chiedono un racconto a tema: voglio tre cartelle di un racconto horror ambientato a Natale. Perfetto, ci vado a nozze. Come tutti sanno, il tema libero è il più difficile di tutti: a scuola, non l'ho mai scelto.

Massimo Pietroselli (Roma, 1964) esordisce nella fantascienza vincendo il Premio Urania con il romanzo Miraggi di silicio (Mondadori, 1995). Successivamente vince il premio Fantascienza.com con L'undicesima frattonube (DelosBooks, 2004). Nel 2005 vira verso il giallo: vince il premio Tedeschi con Il palazzo del diavolo, dove introduce una Roma fine ottocento preda della speculazione edilizia, nella quale si muovono gli ispettori di Pubblica Sicurezza Corrado Archibugi e Onorato Quadraccia, un piemontese e un trasteverino.

Stessa ambientazione e stessi personaggi per il successivo La porta sulle tenebre (Mondadori, 2007), dove si approfondiscono i rapporti tra la finanza e la politica del tempo. Il suo blog, di recente costruzione, è bustadimanila.blogspot.com