Ho tre figli di diversa età, adesso anche un nipotino, una moglie e i genitori anziani. Le mie paure sono legate alle loro persone. Se stanno bene loro, va tutto bene. Ma so quanto l’impermanenza caratterizzi la nostra vita. Il fratello di mia moglie, nel lontano 1976, è uscito di casa in motocicletta, cinquecento metri dopo ha impattato contro un auto, ed è morto poco dopo all’ospedale. Aveva 22 anni. La vita di un mio caro amico, Gaetano De Leo, criminologo, docente di psicologia giuridica a La Sapienza a Roma, al quale ero legato dall’infanzia, e che credevo indistruttibile, è stata stroncata improvvisamente da un infarto... E’ questa impossibilità di dire “domani” che suscita le mie paure. Anche riguardo a me stesso, ovviamente. E mi piace credere, per scaramanzia, che questa paura abbia una preziosa funzione di difesa.
Con il cibo ho un rapporto molto complicato. Ci sono alimenti che il mio cervello rifiuta: tutti gli insaccati e gli stagionati, i sottaceti e i sottoli. In pratica tutto il cibo conservato. Basta che un solo pezzo di questi si trovi nel mio piatto, anche quello preferito, perché non mangi più. Io penso che ciò sia dovuto al fatto che all’età di nove mesi mia madre, malata di tisi, fu costretta a lasciarmi per essere ricoverata in un sanatorio, dove restò per oltre un anno. Quel distacco traumatico in così tenera età, mi fa pretendere ancora oggi piatti caldi, preparati appositamente, come se mia madre fosse accanto a me. Il piatto freddo, il cibo insaccato, conservato, palesa invece la sua assenza. Per il resto, sono molto goloso, e il convivio è uno dei momenti più belli per stare insieme, meglio con le persone che ami e ti piacciono.
Fin da ragazzo ho praticato sport, alle medie e superiori quello agonistico. Ero un buon velocista. Poi ho avuto la passione per i pesi. Avevo cominciato facendomi un bilanciere con un manico di scopa infilato in due barattoli di cemento armato. Poi ho frequentato palestre. Ero un fanatico della forma fisica. Mi sono un po’ lasciato andare dopo il matrimonio, ma arrivato a 36 anni ho ripreso l’attività sportiva, dedicandomi allo jogging. Oggi, a 60 anni, la prima cosa che faccio al mattino è mettermi la tuta, scarpe da walking, e fare un’ora di camminata veloce: in pratica da casa mia compio il giro del lago dell’Eur. Poi, pochi esercizi con i pesi, solo per tonificare i muscoli. Naturalmente mi sono comprato un bilanciere e un paio di manubri. Anche questi tutte le mattine. Segue, di prammatica, una bella doccia. Soltanto dopo ho la coscienza tranquilla per mettermi a scrivere. In casa sono vestito come se dovessi uscire: jeans e polo, o t-shirt blue marine, alla Armani. La stagione poi suggerisce se mettere una giacca sopra o un giubbotto. In passato sono stato dirigente d’azienda – ero responsabile delle attività editoriali di Telecom Italia – e vestivo solo abiti interi, blu o grigi, camicia, giocando molto sulle cravatte. Ne ho alcune belle, di Marinella. Ma ora non le uso praticamente più.
Sono contento di vivere a Roma. E più contento ancora di vivere al quartiere Giuliano-Dalmata, a confine dell’EUR. Ci sono arrivato quando avevo solo 3 mesi, dal campo profughi giuliano-dalmati di Servigliano, nelle Marche, dove sono nato. In pratica non mi sono mai più, d’allora, spostato da questa zona. Solo che essa ha subito una trasformazione gigantesca da apparire un’altra. Nel 1948 qui c’era solo la campagna, le caserme della Cecchignola e i palazzi bianchi dell’E.42 il futuro Eur: il Palazzo dei Congressi, quello della Civiltà del Lavoro, dell’INA e gli altri di marmo candido ancora ben visibili.
Ma mi piace anche viaggiare, conoscere altri posti, anche se trascorro tutte le estati in Grecia, nell’isola di Kos, della quale è originaria la madre di mia moglie. Ci vado tutte le estati in macchina, perché il villaggio in cui viviamo si trova su un monte, a 9 chilometri dal mare: una vista che ogni volta t’illumina di immenso. Per il resto dell’anno, abitudinariamente, faccio alcune puntate a Fiume, la città di cui è originaria la mia famiglia e dove ho ancora parenti. Piccole ma frequenti tappe che servono a ritemprarmi l’anima, vedendo luoghi che hanno riempito le vacanze della mia adolescenza.
Quando sono fuori non scrivo mai. Mi capita solo di prendere appunti su uno di quei mini book tascabili che mi porto sempre dietro. Scrivo nello studio che ho sempre avuto nella casa in cui vivo da quando mi sono sposato.Ho difeso – egoisticamente - questo spazio anche di fronte alla nascita di tre figli. E’ una bella cameretta foderata di libri, con scaffali che vanno dal pavimento al soffitto, la scrivania a elle, il lato più corto riservato al computer e quello più lungo alle correzioni a mano e alle carte, alle letture di ricerca, allo studio. Per la lettura distensiva mi servo del divanuccio poggiato contro una libreria. Ho precise scansioni di lavoro: al mattino (dopo la camminata e i pesi) scrivo i miei libri, subito dopo il pranzo leggo i giornali e i libri che devo recensire o intervistare gli autori per La gazzetta del mezzogiorno a cui collaboro, quindi letture di lavoro.
Quando scrivo, è una jattura se capita che qualcosa si inceppa. Può capitare soprattutto con word, quel difetto che ha quando ti si presenta quella mascherina che ti dice “è stato commesso un errore, la macchina verrà chiusa" ecc. e ciò che si salva sono solo le cose fino a quel momento memorizzate. Se il blackout arriva dopo, perdi tutto. Una volta mi capitava così spesso da essere stato costretto a comprare un nuovo computer. Ma, anche se più di rado, capita ancora. E’ la volta che maledico la Microsoft, perché tutti i tecnici mi dicono che fa parte proprio del software. E perché non lo risolvono? Tanti mi consigliano di passare a Mac Intosh, più sicuro. Vedrò. Per tutti gli altri problemi di carattere informatico per fortuna ho mio figlio Carlo, di 14 anni, che ha un istinto naturale per le nuove tecnologie e che mi salva dalle arrabbiature.
Scrivo per i giornali da quando a 14 anni ho visto una mia poesia pubblicata sul giornale dei profughi istriani Difesa adriatica. Poi, quasi subito, sono passato agli articoli, sempre per lo stesso giornale. Dagli articoli ai racconti. A 17 anni ho pubblicato il mio primo libro di poesie. A 19 il secondo e ultimo. Poi solo giornalismo e prosa. Sono tante le testate a cui ho collaborato, tra cui diversi quotidiani. Molti anni a Paese Sera, ma la stagione più lunga ormai è a La gazzetta del mezzogiorno, con ormai 16 anni di lavoro alle spalle. Anche per questo mi sono sentito onorato di fare un pezzo per i 120 anni di vita che il giornale ha festeggiato quest’anno con una edizione speciale. Scrivo di getto e non ho mai esitazioni, per cui non ho mai, neppure, sofferto della sindrome della pagina bianca. Può capitare di sentirmi insoddisfatto di qualche scritto, quando già mi trovo in una fase piuttosto avanzata, ma allora ricomincio senza mai perdermi d’animo e andando avanti finché dentro di me, pur con il lavoro in fieri, non mi sento soddisfatto. Mi capita invece di trovare errori quando vado a rileggere il testo una volta pubblicato. Allora mi chiedo sempre come possa essermi sfuggita una banalità del genere, e mi prende una piccola stizza.
Tante volte ci sono delle scadenze da rispettare e, di solito, con questa prospettiva, ci si muove sempre all’ultimo momento. Ma ciò vale per gli articoli. Non per i libri, romanzi e racconti, che vengono pensati in tempo. Sono comunque un tipo costituzionalmente organizzato.
Quando scrivo ho solo bisogno di un sigarillo per cominciare. Lo accendo, il tempo che, col fumo, salga l’avvio e parto. L’importante, comunque, è trovarmi nel mio studio. Anche se in passato ho tranquillamente scritto in redazioni affollate, a Paese sera quando mi capitava o nel mio ufficio alla Telecom. Forse certe cose potevo scriverle solo lì, a casa nel mio studio no. Non lo so. Voglio solo dire che sono in grado di produrre testi anche fuori dal mio studio. Diciamo, però, che la letteratura, per me, abita solo qui.
Il fatto di essere figlio unico e di aver vissuto fino all’età di dieci anni in quei falansteri che erano i padiglioni del Villaggio Giuliano Dalmata mi ha dato una grande dote: quella di saper stare in compagnia degli altri, ma anche di riuscire a stare bene da solo. Ho amici che mi porto dietro da quella lontana infanzia, e altri acquisiti nel corso della vita. Mi piace stare in loro compagnia, meglio se conviviale, intorno a una tavola con del vino. Anche il lavoro di dirigente mi ha forgiato per il lavoro di squadra. Più recentemente, nel 2006, ho curato per Progetto Italia della Telecom, con Oscar Iarussi, caporedattore cultura e spettacoli di La gazzetta del mezzogiorno, la rassegna cinematografica Mezzogiorno di cinema al Petruzzelli di Bari. A parte la perfetta intesa con Oscar Iarussi, si trattava di lavorare insieme ad altre persone, con diverse competenze. E’ stata un’esperienza collettiva magnifica.
Ci sono persone che sono in cima ai miei ricordi, quotidianamente. La mia nonna paterna innanzitutto, che ha avuto il difficile compito di allevarmi quando mia madre fu costretta al ricovero in sanatorio. Era una donna istriana di etnia croata che mi ha trasmesso forti valori morali. Ricordo spesso anche mia suocera, Despina, una donna greca di grande somiglianza comportamentale, forse per la comune cultura contadina, con mia nonna. Entrambe persone che hanno accettato il loro destino non facile con fatalismo, soffrendo (mia nonna ha perso il marito in guerra e 4 dei sette figli che aveva, tra i quali uno suicida, mia suocera ha perso due figli, la gemella di mia moglie all’età di due anni e il figlio all’età di 22), ma anche sapendo gioire delle buone e piccole cose della vita, compreso un bicchiere di vino, se quel giorno era in tavola. E i nipoti che hanno accudito, mia nonna me, mia suocera le mie figlie maggiori: sono stati un dono che le ha ripagate con l’amore che i nipoti hanno saputo ricambiare e con il quale le ricordano..
Ho conosciuto anche i miei nonni materni che, dopo il passaggio della città alla ex jugoslavia, sono rimasti a Fiume, pur essendo – al contrario della nonna paterna – italiani, tanto da non saper neppure parlare il croato. Già ultracinquantenni all’epoca, non se la sono sentiti di fuggire illegalmente in Italia come hanno fatto gli allora miei giovani genitori.
Mi fa paura la morte improvvisa, forse più che la malattia. L’interruzione di tutti i contatti con le persone che ami e con le cose da fare. Mi fa paura per gli altri e per me. Inoltre, della morte, per quel che mi riguarda, ho terrore di essere inchiavardato in una cassa e poi di avere uno strato di terra consistente sopra. Com’è il corpo da morto? Cosa percepisce della vita esterna? Siamo sicuri che c’è il nulla o che non sopravviva in noi, anche in quella condizione, qualcosa delle sensazioni corporali e intellettuali? Anche la cremazione non è una soluzione: arrivi tra le fiamme chiuso in bara senza possibilità di fuga.
Nonostante questo terrore della morte, faccio sonni tranquilli. La mattina mi piace crogiolarmi nel letto, non mi alzo prima delle otto e solo perché me lo impongo: devo fare colazione (yogurt e caffè), la camminata e poi scrivere, leggere. Mi sveglio di notte solo se a scuotermi è un sogno che mi incuriosisce o se quanto sto scrivendo è tanto intenso da suscitare dentro di me scene, pagine, dialoghi che mi rendono insonne e che, comunque, mi affretto a scrivere sul mio taccuino. Ormai, di taccuini, ne ho tantissimi. Alcuni riportano anche molti sogni. Da giovane tenevo anche un diario, credo per un decennio e più. Qualche volta vado a rileggere qualche pagina. E’ una miniera, pieno di cose dimenticate.
Si potrebbe vivere di scrittura. Con le collaborazioni ai giornali, le consulenze, meno con i libri. Si potrebbe, ma con grandi sacrifici. Io ho vissuto con una lavoro che mi piaceva: guadagnavo facendo giornali e riviste, dividendo la giornata con redattori, grafici, tipografi, distributori, conoscendo molte persone. E scrivendo per mestiere, anche se per conto terzi. Il ruolo che svolgevo era dirigenziale e perciò gratificato economicamente. Oggi usufruisco di una pensione che è il frutto di quel ruolo. Ed ho tutto il tempo per dedicarmi interamente alla scrittura, non più per conto terzi.
Da cinque anni faccio la vita dello scrittore a tempo pieno. Un sogno accarezzato e perseguito tenacemente da quando a 17 anni ho pubblicato il mio primo libro. Anche il lavoro che ho fatto per vivere è figlio di questo sogno. Non avrei potuto fare l’impiegato, anche se è stato il mio primo lavoro. Ma dopo la pubblicazione del mio primo romanzo Massacro per un Presidente, edito da Mondadori, è cambiato tutto. Ho preso prima l’aspettativa, mia moglie consenziente e già con due figlie, poi ho trovato la strada della stampa aziendale. Altre prospettive erano l’ufficio stampa romano della Bompiani dopo il passaggio di Cristiana Zegretti alla Rizzoli, ancora non unite le due case nella RCS… Ho, pur tuttavia, nel frattempo, svolto attività free-lance di ufficio stampa per diverse realtà editoriali e artistiche. Per cui, come dire, ho sempre vissuto nell’ambiente. Devo ringraziare alcune persone, in particolare Antonio Barolini, uno scrittore e poeta oggi dimenticato, ma che per anni è stato il corrispondente dagli Stati Uniti di La Stampa, poi caporedattore di La Fiera Letteraria, una tra le più grandi riviste storiche di letteratura, quando direttore era Diego Fabbri.
Rimpianti? Nessuno, se non quello di non aver risolto un dubbio relativo al progetto di quale tipo di scrittore essere. Nel mio immaginario vivono due miti: quella dello scrittore serenamente commerciale che vive dei suoi libri sfornati in continuazione, come Eric Ambler, Desmond Bagley, Alistair Mac Lean, per fare nomi di scrittori che ho molto ammirato, e quella dello scrittore che persegue solo i comandamenti della sua voce interiore, come Elio Vittorini, Stefano Terra, Fulvio Tomizza, per fare i nomi di scrittori amati sul versante opposto e come i quali fare letteratura. A me resta difficile non seguire la mia voce interiore, tant’è che i temi dei miei libri, comunque, hanno ambiti che riguardano le mie radici e la mia storia famigliare, i miei luoghi e il mio vissuto. Ma mi piace pure il meccanismo dell’intrigo, dell’avventura, del mistero, del viaggio come scoperta di un altro sé stesso. Mi trovo così in bilico, sulla frontiera, come sempre. Sul piano della mia immagine di scrittore, ciò mi ha posto su un terreno di ambiguità, che ripropone anche su questo versante i miei problemi di identità. Sono “giallista” o no? Lo sono sicuramente con Crociera di sangue, Operazione Venere, ma già in maniera più dubbia con Massacro per un presidente e L’uomo di Kos, non lo sono affatto con Una storia istriana e I confini dell’odio e quello che ho appena finito di scrivere. Mi consolo pensando a uno scrittore che su questa non identità ha costruito la sua identità: Graham Greene, autore di romanzi tout-court ma anche di quelli che lui definiva divertissement, inglese ma convertito al cattolicesimo romano, viaggiatore curioso ma spia per conto terzi, insomma anche lui diviso tra “genere” e letteratura. Un’ambiguità che gli è costata il Premio Nobel. A me molto meno.
Non sono capace di far del male. Posso però provare sinceri sentimenti di indignazione.
Beh, essere invisibile almeno una volta nella vita, per alcune ore, a chi non piacerebbe? Io poi sono un po’ voyeur, per cui ci metto sì il sesso ma anche la possibilità che avrei di carpire alcuni segreti. Come scrittore, mi sarebbe piaciuto a suo tempo entrare nell’Ufficio Affari Riservati del Viminale di Federico Amato dove si è scritta la storia italiana di questo dopoguerra.
La lettura è in assoluto il mio passatempo preferito. Tante volte penso che mi manca il tempo per leggere tutti i libri che vorrei. Purtroppo, molto di questo tempo viene portato via dai libri da recensire o dei quali devo intervistare l’autore. E’ sempre, quella, una lettura coatta, perché doverosa. Tuttavia mi lascio momenti di libertà. Mi capita inoltre di giocare nei weekend a carte con alcuni amici: sempre a burraco. Partite che finiscono sempre, piacevolmente, a tavola. Poi, a parte le lunghe estati greche, ci sono sempre i viaggi, brevi, di non più tre, quattro giorni, una settimana al massimo, dopo di che non vedo l’ora di tornare a scrivere. Ma i viaggi sono molto stimolanti per la fantasia. Le mie storie quasi sempre nascono in viaggio. Tra l’altro in viaggio faccio sempre gli incontri più interessanti. Comunque, il viaggio per me è anche quello che faccio a Roma, quando mi capita di bighellonare per le vie di certi rioni del centro: ogni volta è una scoperta. Eppure a Roma vivo da circa sessant’anni. Insieme ai monumenti, ai palazzi, alla vitalità delle strade, mettici anche le donne.
Diego Zandel, 1948. Italia. Scrittore di origine fiumana. Nasce in uno dei campi profughi che ospitano gli esuli italiani in fuga dalla Yugoslavia di Tito. Questa origine avrà poi molta rilevanza nei suoi libri, sia di genere thriller che non, dove dimostrerà la sua profonda avversione per "ogni" nazionalismo e discriminazione. Tra i suoi romanzi, citiamo: Massacro per un presidente (1981) uno dei primi ad affrontare gli Anni di Piombo, Una storia istriana (1987), I confini dell'odio (2002), L'uomo di Kos (2004). Ha scritto anche un paio di avventure spionistiche per la collana Segretissimo: Crociera di sangue e Operazione Venere. (FN dal DizioNoir)
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