Canada, finalmente!

In Italia, salvo l’exploit di Margaret Doody e del suo Aristotele detective, non possiamo proprio dire di essere stati invasi da noir canadesi, nonostante l’ovvio vantaggio di essere romanzi scritti in inglese e quindi appetibili per il nostro mercato tendenzialmente esterofilo: Karen Irving con la sua astrologa Katy Klein di Ottawa, Kathy Reichs (che però è americana) con la sua anatomopatologa Tempe Brennan di Montréal e poco altro.

E ora ecco il cinquantacinquenne Giles Blunt, emigrato in cerca di fortuna negli USA (sceneggiatore per esempio di Law & Order) e ritornato nella sua terra solo però per l’ambientazione dei suoi quattro noir di cui questo è il primo.

Ebbene, è proprio la location, come si direbbe in gergo cinematografico, la cosa più intrigante di Quaranta modi di dire dolore. Algonquin Bay riproduce la North Bay dove lo scrittore è nato e cresciuto, sulle rive di uno dei tanti laghi interni del Canada, il Nipissing Lake: pur essendo posta a una latitudine inferiore a quella di Londra, d’inverno è infinitamente più fredda a causa del suo clima continentale artico. Ma fra il buio precoce, la neve che sfarfalla e il ghiaccio che imprigiona i laghi in una morsa feroce si dipana ahimè una storia “molto” televisiva: non nel senso della inverosimiglianza (fiction all’italiana!), ma della studiata contrapposizione di luoghi comuni cari al tele-lettore (fiction all’americana!).

Un agente investigativo, John Cardinal, anglofono, molto esperto e tenace sul lavoro, un’educazione cattolica non del tutta evaporata con gli anni specie sul versante dei sensi di colpa, una vita costellata di buchi neri: la moglie depressa, la figlia che studia in un college costosissimo negli Stati Uniti e un sospetto di collusione con un pezzo grosso della malavita.

Il sergente Lise Delorme, francofona, affascinante quanto basta, senza legami sentimentali, già transitata nel reparto Indagini Speciali:  e in questa veste collabora sì con Cardinal sulla serie di delitti che insanguina questa città canadese, ma al tempo stesso cerca le prove della corruzione del collega.

Un capo, il sergente Dyson, duro e cinico come un sergente istruttore dei marine, rimette in pista Cardinal dopo averlo allontanato dalla Omicidi, ma sovrintende all’indagine interna condotta dalla Delorme; e pure lui finisce per avere qualche zona oscura…

Un bel po’ di giornalisti d’assalto più cinici e intraprendenti che mai.

E infine un bella coppia di giovani e sciroccatissimi serial killer (che, di questi tempi, non mancano mai), di cui non interessa tanto l’identità (a metà romanzo già la coppia è descritta al lavoro), ma il modo in cui i nostri eroi riusciranno a neutralizzarla.

A salvare l’intreccio, professionale ma un po’ scontato, provvedono alcuni spunti tratti dalla realtà canadese: l’attrito silenzioso ma continuo tra la comunità anglofona e quella francofona (qui rappresentata dalla Delorme); la presenza di una minoranza di “nativi”, debitamente emarginati; i conflitti di competenze e la rivalità tra le forze di polizia locali e nazionali e soprattutto con la polizia a cavallo, erede delle mitiche Giubbe Rosse di tanta mitologia letteraria e cinematografica.

Benché il romanzo riservi nel finale alcune sorprese e attimi di suspense non banali, tuttavia non riesce a decollare appieno: novità e luoghi comuni si intrecciano senza posa e il lettore ha la perenne sensazione, pur nell’estrema professionalità dello scritto, di aver già visto certe scene, ascoltato certi dialoghi, intuito certe distorsioni della psiche umana.

Il giudizio rimane quindi in parte sospeso: in fin dei conti, nonostante l’età non più verdissima, sembra che Blunt non abbia ancora deciso se fare il romanziere o lo sceneggiatore.

O che abbia cominciato a scrivere uno dei soliti romanzi già confezionati per Hollywood?

 

Voto: 6.5