Dado l'aveva guardato andare via pieno d'invidia. Qualcuno con cui giocare tutti i giorni e tanti bei sassolini colorati. Emanuele era veramente fortunato.

Finalmente anche gli ultimi frammenti erano pronti. Davide li distese in fila sul pavimento d'assi spelacchiate e rimase ancora un poco a guardarli risplendere nella penombra. Con calma e precisione li infilò assieme agli altri, come aveva visto fare in un film nel mezzo della notte. Sua madre non gli aveva mai permesso di stare alzato fino a tardi. Una sera però non aveva potuto controllarlo. Sdraiata sul divano, in compagnia di una bottiglia di Glen Grant, non era arrivata sveglia a vedere l'orologio che batteva le ventidue.

Era stato il signor Tommaso a spiegargli che Emanuele non sarebbe più passato in bicicletta per il vivaio.

Lo avevano visto giungere tutto sudato nella piccola piazza di fronte ai giardini pubblici. Era sceso dalla sua bici rossa e aveva mosso qualche passo verso la fontana. Non c'era mai arrivato. Il sangue aveva iniziato a scorrere macchiando i pantaloni e portandosi via la sua vita in pochi minuti.

Non era esattamente questa, la storia che gli aveva raccontato il signor Tommaso, ma alla bocciofila i vecchi non parlavano d'altro e Davide sapeva ascoltare.

Giochi proibiti. Mancanza di prove.

Queste le altre parole che aveva sentito pronunciare.

Giochi. Prove.

Finalmente la porta di legno verde si aprì.

Dado si alzò occupando il centro della stanza. Ai suoi piedi lo zaino. La sacca blu era rimasta sempre lì, sul pavimento della baracca, dove Emanuele l'aveva lasciata scappando. Lo zio spalancò la bocca per la sorpresa. Gli occhi formularono una domanda senza risposta.

Davide roteò sopra la testa le due calze piene di sassolini e colpì.

Mille schegge luccicanti macchiarono l'aria di sangue.