Il bambino aprì piano la scatola metallica. La aprì lentamente come aveva visto fare in televisione in un gioco a premi all’ora di cena dove la gente urlava e poi gli davano anche dei soldi per aver scelto un pacco o un altro. Succhiellava il contenuto come aveva visto fare al nonno con le carte quando con gli amici giocava a ramino. Era più bravo il mago al circo che faceva uscire sempre il coniglio. Da dentro la scatola usciva un odore strano, un profumo misto a qualcosa di amarognolo, forse un po’ marcio come quella volta che la mamma aveva lasciato fuori dal frigo la carne quando erano andati in vacanza per una settimana all’isola d’Elba. Usciva del tanfo ma mischiato a dell’alcool. O era un deodorante. Forse borotalco.

Quando l’aprì del tutto non si meravigliò di trovarsi tra le due manine quella rinsecchita di nonna Fiamma. L’aveva riconosciuta dall’anello che era ancora lì al suo posto. “Piacere signora, come si chiama?”, Leo si passava da una all’altra mano l’arto scheletrico della nonna morta ormai da due mesi. Era tagliata di netto al polso. La stringeva poi ci si grattava la testa oppure si metteva l’indice ossuto vicino alla tempia picchiettandosela come a dire “E’ matto”. Forse si riferiva al nonno. Guardava le sue due mani e le raffrontava con quella mozzata. “Ciao nonna, come stai”?

Gli venne un’idea per farsi perdonare da Stecco. Una volta lo aveva chiamato Johnny Stecchino. Allora si che si era arrabbiato veramente. “Nonno lo vorresti un bel massaggio alle spalle”? Giuseppe si ridestò dal torpore del dopo pranzo quando una pennichella era d’obbligo. “Ah si, si, grazie. E’ proprio quello che mi ci vuole. Qui sulle scapole, così”, e tentò di portarsi dietro la schiena il braccio destro. Si fermò a metà dell’opera. “Insomma hai capito, proprio lì”. Leo prese la mano della nonna, la nascose e si avviò dietro il divano senza farsi scoprire.

Cominciò a grattarlo sulle spalle, poi più al centro ed in basso sulle scapole, infine passandogli sulla colonna vertebrale. “Così mi fai venire i brividi Giacomino. Anche la nonna con le unghie mi grattava nello stesso identico modo”. Giacomo appoggiò la mano tagliata in bilico sulla spalla di Stecco e mise le sue due piccole sugli occhi del nonno. “Perché hai smesso?”, disse istintivamente. Poi fece un rapido conteggio: o il nipote aveva bevuto il latte provenente da Chernobyl o c’era qualcosa che non andava con la matematica. Giacomino aveva tre mani? Poteva essere. Forse non gliele aveva mai contate bene, forse era proprio invecchiato male. Forse i bambini di oggi ce ne hanno tre in dotazione.

Stecco prima si alzò di scatto e per un pelo non si fece venire un infarto, poi si voltò all’improvviso ed alla fine decise di sbiancare. Sembrava ancora più magro e cadaverico del solito. Al centro del salotto con il giornale accartocciato nella mano destra. Cercava un appiglio nell’inchiostro invece anche per oggi la maggior parte delle notizie erano bufale belle e buone. Era ingobbito e stava balbettando qualcosa. Quando si era alzato di colpo la mano era rotolata sulla seduta, ma Leo l’aveva subito ripresa ed ora la stava facendo trotterellare sul bordo della spalliera come un granchio su uno scoglio assolato, come un pupazzetto tirato da fili invisibili.

“Ma…ma…ma…que..lla…non…non”. Il nonno a volte era incomprensibile ma che aveva da farfugliare. Pover’uomo era sempre più vecchio. Balbettava: “Tu…a no…nna”, sembrava un robot rotto, uno dei suoi dischi quando s’incantava la puntina. Biascicava. Stava per saltargli la dentiera: “Ma..tu..sa…i cos’è?”. Leo faceva zampettare la mano mozza da una parte all’altra. “Certo, è la mano di Capitan Uncino!”. Per un pelo al nonno non venne un attacco di cuore. “Si nonno, dai calmati, lo so è la mano della nonna”, lo disse con tono rassicurante.

Leo aveva sette anni ed il nonno settantasette ma in quell’attimo sembrava lui l’adulto e Stecco un piccolo pinguino impaurito. “Dove l’hai trovata?”, chiese perplesso ed anche un po’ schifato. “Era lì nella scatola dei gomitoli. Forse l’ha lasciata come ricordo la nonna”. Leo aveva una faccia da schiaffi ma intanto non mollava la presa. “Quante volte ti ho detto….”, il nonno era partito per la tangente e Leo aveva chiuso i boccaporti e non lo stava più ad ascoltare. Il nonno sbraitava. Urlava di dargli “quella cosa”. Non la chiamava “mano”, “la mano della nonna”, o “la mano di mia moglie”. Ma “quella cosa”. Stecco con le sue mani rinsecchite aveva strappato il gioco a Leonardo e si era avviato al telefono.

Il nonno aveva appena composto il 113 quando la compilation “Anni ruggenti” attaccò: “Prendi questa mano zingara, dimmi pure che destino avrò”. Guardò fuori dalla finestra. Bobby era solo e stava correndo felice e contento verso casa. Salterellava ed aveva tutte le zampe sporche di terra e fango. Sembrava avesse qualcosa in bocca. Un topo con cinque code. O un guanto di gomma di quelli per lavare i piatti. Cercava di mettere a fuoco ma non capiva bene cosa fosse. Forse era un ragno gigantesco o un polpo con i tentacoli che penzolavano. O le chele di un’aragosta. Leo con una mano tirò dal basso i pantaloni del nonno: “Sherlock puoi riagganciare, abbiamo trovato il nostro colpevole. La pena sarà esemplare: niente croccantini per un mese”.