“Bobby smettila di giocare con i gomitoli di lana della nonna”. Il nonno prese la lana sfilacciata e fece uscire nel giardinetto ormai con i colori autunnali il giovane Labrador. Raggomitolò alla meglio il tessuto, ne fece una palla e la lanciò distrattamente dentro il cesto in acciaio dove Fiamma riponeva la maglia la sera per riprenderla alla mattina. Si era finita gli occhi a forza di cucire. Il nonno richiuse con il coperto metallico e la rimise al suo posto accanto al divano, dove era sempre stata fin quando Fiamma era in vita.
Ma chi era questo “Bortoli” Leo non lo sapeva proprio. Il nonno stava lì che cantava tutto il giorno di questo tipo con il naso triste che andava in salita. Ma perché bisognava avere il naso triste per andare in bicicletta Leo non l’aveva capito. E poi com’era un naso triste? Se lo immaginava grande, grosso e bitorzoluto. Leonardo rimuginava con un dito nel naso mentre roteava una scatola di latta. Sembrava vuota ma dentro rotolava qualcosa di duro in mezzo a tutta quella lana che adesso nessuno usava più. In salotto il nonno canticchiava: “Quanta strada nei miei sandali, quanta ne avrà fatta Bartali”. Ma il cantante diceva “Bortoli” o “Bartali”? Finiva il disco e lo rimetteva. Il nonno Giuseppe aveva ancora i dischi in vinile e non si era voluto inchinare alla logica del cd. “E’ più piccolo, più comodo e dura per sempre”, gli aveva detto Giulia, sua figlia che lavorava alle Poste.
La villetta a due piani era abbastanza spaziosa e nonno e nipote non si pestavano i piedi. Avevano due caratteri solitari e si incontravano soltanto se il bambino ne aveva voglia. Leo rotolava il nuovo gioco e la latta sembrava rispondergli. Ding, dong, sdang. Qualcosa sbatteva all’interno. La strofinava come se dentro ci dovesse essere il Genio della lampada. Il nonno ci teneva a quella scatola colorata, anche se non ci giocava mai. Chissà perché la custodiva come una reliquia e guai a chi gliela spostasse. Leo ci aveva messo un sacco di tempo per prenderla. Sopra c’erano disegnate le renne e Babbo Natale ed anche se era appena ottobre era bello vedere la neve e gli abeti, i regali e quel nonno barbone con la pancia grossa e la risata facile. Nonno Giuseppe invece era magro, si faceva la barba tutte le sante mattine e ultimamente l’aveva visto sorridere poco.
Leo oggi era tornato presto da scuola. Di solito faceva il tempo pieno ma oggi il nonno era andato a prenderlo a mezzogiorno e lui non se l’era fatto ripetere due volte. Aveva preso il suo zainetto e con il grembiule blu e il giubbotto che gli penzolava di lato strusciando per terra si era avviato nella Punto grigia metallizzata dello Stecco. E’ così che gli amici del circolo chiamavano nonno Giuseppe e Leo da quella volta che lo ha sentito lo chiama sempre in quel modo.
“Stecco vieni qua, Stecco fai questo, Stecco fai quest’altro”. Giuseppe si arrabbiava più per il nomignolo che per l’arroganza. Poi gli passava, almeno fino alla volta successiva. Avrebbe preferito un più classico “Beppe”, come lo chiamava Fiamma. L’aveva chiamato Stecco proprio una decina di minuti prima ed allora le loro strade si erano divise: il nonno in sala e Leo in corridoio con i calzini tirati giù fino alle caviglie, vicino al termosifone sul parquet freddo.
“Stai sul tappeto a giocare, quante volte te lo devo dire?!” Quando faceva così proprio non lo sopportava il nonno. Stecco non faceva mai niente di avventuroso, di difficile o almeno di impossibile. Il nonno non era un eroe come il nonno di Giacomo, lui si che era un vero ganzo. Il nonno di Giacomo innanzitutto non aveva nessun soprannome ridicolo, era grande e grosso e prendeva sempre in collo suo nipote all’uscita di scuola. E Giacomo guardava tutti dall’alto del metro e novanta del nonno. E infatti Giacomino diceva sempre: “Mio nonno è così, e non indovinerete mai che cosa ha fatto ieri mio nonno”. Ed erano sempre cose strabilianti. Pazzesche ed affascinanti. Sarebbe stato bello avere un nonno come quello di Giacomo, forse lui poteva girare scalzo in casa e giocare con tutto quello che voleva.
Appena Stecco si sarebbe accorto con che cosa Leo stava giocando sicuramente glielo avrebbe tolto di mano. Deng, scronch, crack. “Che fai Leo?” gli disse con gli occhi fissi sul Corriere di Firenze alla pagina delle recensioni teatrali. “Nulla nonno sto solo giocando”. “Bene, bravo. Te li sei lavati i denti?” Leo non aveva capito la domanda ma rispose istintivamente di si. Il nonno stava leggendo in pantofole. Era seduto sul divano. Il divano bianco era davanti alla televisione e da un’eternità in mezzo al salotto. Leo aveva guardato se il nonno fosse voltato nella sua direzione. Forse se la dormiva della grossa con il giornale davanti a nascondersi.
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