"Una storia dalla parte sbagliata della storia". Così recita la quarta di copertina di questo Manituana, ultima fatica letteraria del collettivo Wu Ming.
Con questo romanzo il quintetto narrativo torna al grande amore di sempre, ovvero il romanzo storico (da cui, a dirla tutta, non si erano mai allontanati: né con Asce di guerra né con 54, e certo non con il loro acclamato romanzo d'esordio Q, ancora firmato con lo pseudonimo Luther Blissett).
Il periodo storico di riferimento è il 1775, in prossimità della rivoluzione che darà vita agli Stati Uniti d'America. L'originalità del romanzo consiste nel punto di vista adottato, che non è quello dei coloni ribelli (visto e stravisto in molteplici salse), bensì quello delle Sei Nazioni irochesi, ovvero una confederazione di popoli indiani che cerca di non essere schiacchiata nella guerra che infuria tra lealisti alla corona e indipendentisti.
Mentre sullo sfondo accade la Storia, quella con la S maiuscola, la vicenda del romanzo si concentra su alcuni personaggi: indiani, sì, ma molto diversi da quelli che possiamo avere visto finora nei film western. Sono indiani occidentalizzati, cristiani, avvezzi alla cultura britannica e cittadini di Sua Maestà; ciononostante non hanno perso i legami con le proprie tribù. E, proprio in virtù di questa doppia appartenenza, cercheranno un fragile equilibrio fra la sopravvivenza dell'identità indiana e la lealtà alla Gran Bretagna.
Manituana è diviso in tre parti distinte: un'introduzione della vicenda, una trasferta londinese in cui i protagonisti cercano una legittimazione politica direttamente da parte della corona, e infine un rientro in America con la conclusione della guerra. È proprio la parte centrale quella che funziona meglio in tutto il romanzo, e che - come si suol dire - vale da sola l'intero libro. I Wu Ming descrivono infatti una Londra di fine Settecento riuscendo a dipingere di quel mondo un affresco totalmente alieno e degenerato; mentre accompagniamo gli indiani alla scoperta di una civiltà remota e spesso inconcepibile sembra quasi di trovarsi di fronte a un romanzo di fantascienza. Paradossalmente il lettore finisce per trovare molto più "normale" la vita nelle Sei Nazioni che non quella di Londra, sia essa ambientata a corte o nei vicoli più squallidi, dove imperversa tra l'altro una sgangherata banda di quartiere che per le sue operazioni criminali trae ispirazione proprio dai Mohawk.
Nel romanzo si ritrovano un po' tutti gli elementi che caratterizzano altro opere dei Wu Ming, a partire dalla curatissima ricerca storica - che riesce a trasmettere con vivida efficacia la complessità del momento storico - e dalla ricerca linguistica, che a volte sfiora la sperimentazione, come nel caso della neolingua da... mala settecentesca che viene fatti parlare ai "Mohock" dei bassifondi londinesi.
Ciò che manca maggiormente a questo romanzo è un approfondimento reale e tridimensionale dei personaggi protagonisti, che talvolta tendono ad appiattirsi sulla sfondo di una Storia più grande e importante di loro, senza riuscire a emergere come individui. Ciononostante, Manituana costituisce una lettura molto gradevole, significativo capitolo iniziale di un progetto di trilogia sui primordi degli Stati Uniti d'America.
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