Cap.5 – Si fa sul serio
Un giorno di quelli, ma forse più brutto e crudele degli altri, successe la tragedia; il podere che faceva parte del distaccamento fu attaccato dai fascisti in piena forza, mentre i partigiani all’interno della casa erano solo cinque o sei. Uno di loro riuscì a scavalcare le scale che erano fuori e a disperdersi nella boscaglia ma gli altri rimasero intrappolati all’interno del poderino. Dick con il resto dei compagni si trovava a poca distanza e sentì bene gli spari: tutti rimasero sgomenti ad ascoltare, senza sapere che fare, nessun ordine venne in proposito, forse i capi pensarono di non potercela fare, quanti potevano essere i militi?
Quando tutto fu finito, il bosco ritornò silenzioso, i fascisti se ne andarono lasciando in quei luoghi placidi una scia di sangue di fratelli partigiani.
Fu allora che Dick e gli altri decisero di avvicinarsi al podere, volevano quasi distogliere lo sguardo dalla morte che ormai silenziosa si era posata su quel paesaggio; i corpi straziati dei compagni giacevano riversi, chi fuori, chi sulle scale, chi sulla soglia della casupola: erano stati uccisi, i militi avevano poi infierito su quei poveri corpi senza nessuna pietà.
Fu un colpo durissimo per tutti, prima di tutto per la perdita di quelle preziose vite umane, poi per gli interrogativi che poneva l’evento: "che cosa si sarebbe dovuto fare?, si doveva intervenire per salvarli?, eravamo all’altezza ?, valeva la pena di morire così?". Chissà quante cose ancora pensarono quei ragazzi che dovevano fare i conti con tragedie più grandi di loro.
Quest’episodio portò all’aprirsi di una grande crisi all’interno della formazione, ci furono discussioni e divisioni: molti partirono verso altre località, verso altre formazioni, altri se ne stettero nascosti per un po’ ma rimasero nel gruppo nella speranza di riorganizzarsi al più presto e riprendere la lotta, ora con una grossa motivazione in più: "Combattere anche per i compagni che erano morti!".
Dick fu uno di quelli che rimase.
Ci si dovette trasferire, cercare nuovi rifugi, in silenzio, senza dare nell’occhio, ora che i fascisti erano sempre in allerta e potevano vantarsi di aver inferto un colpo mortale a "quei banditi che come traditori si nascondevano nelle macchie".
Il rifugio alla fine fu trovato, una grotta nascosta nella boscaglia: solo dopo molti anni, quando finalmente si fu in pace, si ebbe il piacere di scoprire che era stata una grotta paleolitica, abitata dai nostri antenati. Il gruppo di Dick era ignaro di questa storia ma, come gli uomini primitivi di millenni fa, trovò il rifugio idoneo: asciutto, con un’entrata quasi invisibile, ma dentro enorme e profondo da contenere molte persone. Dentro alla grotta lasciarono le loro povere cose: gli zaini, i vestiti di ricambio, le provviste, i ciottoli che servivano per il mangiare e quindi anche la grossa marmitta.
Era già da un po’ che risiedevano nel nuovo rifugio che dava loro una certa tranquillità quando, purtroppo, anche qui gli avvenimenti presero una brutta piega, d’altra parte erano i giorni difficili e freddi di una lotta incerta e crudele.
Un brutto, bruttissimo giorno, Dick si trovava dentro alla grotta insieme ai suoi compagni, quando a un tratto a Marino, uno dei suoi compagni, sembrò di vedere in lontananza la piccola luce di una sigaretta accesa che si stava consumando: " Ehi hanno acceso una sigaretta laggiù !" esclamò un po’ spaventato, ma nessuno lo stette a sentire, così partì comunque l’ordine di andare a prendere l’acqua giù alla fonte. Fu Dick che insieme al Moro fu incaricato di questo compito. Presero la grossa marmitta e s’incamminarono nella macchia. Dopo un po’ sulla strada del ritorno arrancando su per una proda, sentirono uno scalpiccio dietro di loro e videro in fondo al campo dei militi armati che gli correvano dietro, erano ancora troppo lontani, ma quelli presero la mira lo stesso e spararono, i due si divisero, mettendosi a correre a più non posso per i campi. Dopo una corsa forsennata e con le pallottole che fischiavano vicino alle orecchie, dispersi l’uno all’altro, si ritrovarono acquattati nella macchia, con il cuore che batteva come un tamburo. Dick fece passare alcuni minuti, per vedere se quelli arrivavano, ma niente… se n’erano andati fortunatamente senza riuscire a rintracciarli, poi lui si alzò dal nascondiglio e si tastò, era tutto intero, ma guardando il lungo cappottone che indossava, in fondo, vicino all’orlo, vide due bei buchi che prima non c’erano: le pallottole dei militi questa volta non erano andate a segno!
Di lì a poco si ritrovò col Moro, poi tornò sui suoi passi e in mezzo al campo ormai sgombro, vide la marmitta rovesciata, vuota d’acqua, ma ancora intatta, si precipitò allora a raccattarla. I due compagni aspettarono la notte per muoversi, ma il rientro alla base fu il più triste possibile: "la Tana" era stata visitata, dentro non c’era più niente, tutto portato via e le poche cose rimaste erano state spaccate, distrutte miseramente. Dick pensò alle sue belle calze di lana nuove che la mamma gli aveva preparato, erano la cosa più preziosa che aveva e adesso non c’erano più. Il campo distrutto, i compagni spariti, il rischio di essere ancora sotto tiro, che fare? Fu in quel momento che i due amici presero la decisione di riparare in una casa colonica lì vicino: era il vecchio podere che da secoli apparteneva alla famiglia della mamma di Dick, dove abitava il cugino Palmizio con i suoi: sicuramente li avrebbe alloggiati per quella notte!
Arrivarono al podere quatti, quatti, dopo seppero che nonostante la prudenza qualcuno un po’ più lontano li aveva visti e avrebbe agito di conseguenza. Intanto il buon Palmizio fu svegliato e riconobbe Dick, non ci pensò molto su, bastarono pochi sguardi e qualche parola: che andassero a dormire nel fienile poco più avanti e che "battessero l’angolo" al più presto appena prima di giorno. I due amici finalmente ebbero qualche ora di riposo dopo le emozioni di quel pomeriggio e si addormentarono come pietre tra la paglia del fienile. All’alba furono svegliati dal cugino che trafelato gli annunciava che i fascisti stavano arrivando, li aveva visti in fondo al campo e presto sarebbero arrivati lì. I due ragazzi non ebbero neanche il tempo di salutare Palmizio, schizzarono fuori dalla finestra del fienile e se la dettero a gambe ancora una volta giù per i campi, cercando la vicina macchia come rifugio. Nell’arco di ventiquattr’ore avevano rischiato la vita per ben due volte: la buona sorte aveva dato abbastanza alla loro causa!
Intanto al podere di Palmizio si passò un brutto quarto d’ora; arrivarono i fascisti, svegliarono tutta la famiglia, misero tutti con la faccia al muro e interrogarono malamente il povero contadino su chi avesse dormito lì da loro. Lui, titubante ma irremovibile, con un filo di voce rispose: " So’ venuti in due, non li conoscevo, hanno detto che si riposavano qui sotto qualche ora, che dovevo fare? Avevano i fucili, ho avuto paura per i miei figli!". Gli andò bene al cugino quella volta, fu minacciato con le armi sotto il naso, che non si provasse più a trattare con quei traditori di partigiani che erano la rovina dell’Italia. Come avevano fatto quei militi a sapere dei "nostri" in quel podere? Per quanti cugini buoni e onesti avesse Dick, aveva anche qualche familiare carogna: infatti vicino alla casa di Palmizio abitava un vecchietto, un fascistone di prima riga, che era un suo lontano parente, quella sera l’uomo dalla finestra della sua casa aveva notato i movimenti sospetti di qualcuno e subito aveva pensato ai partigiani. "Nato d’un cane!" avrebbe imprecato Dick. Il vecchio nel cuore della notte si recò alla fattoria, dove si trovava il posto telefonico pubblico, svegliò il centralinista perché aveva una cosa importantissima da comunicare e telefonò al comando del partito fascista in paese, poi al buio e tutto contento di quello che aveva fatto se ne tornò a casa e aspettò gli eventi. Menomale che il vecchio rimase scornacchiato per quella volta! Da quel giorno non ebbe più il saluto di Palmizio.
Intanto Dick e il Moro dopo aver corso e corso tanto per mettersi in salvo, finalmente si fermarono in un luogo sicuro e fu a quel punto che i due compagni di tante avventure stabilirono di dividere il loro destino: il Moro decise di abbandonare il campo e di partire quel giorno stesso per una località sulla costa dove abitava qualcuno della sua famiglia e dove nessuno lo conosceva, così avrebbe potuto nascondersi fino a tempi migliori.
Dick si ritrovò ancora una volta a prendere quelle decisioni cruciali che in quei periodi ti tendevano l’agguato quasi ogni giorno. Senza molta scelta decise di rientrare a casa, di aspettare un po’ e vedere poi il da farsi. Anche quella fu una decisione rischiosa, ormai in molti sapevano della sua sparizione, e quindi il ritorno non era tra le cose più semplici da attuare. Si dette coraggio e sul far della sera, dopo aver fraternamente salutato il Moro, se ne scese giù verso il paese. Era ormai notte quando arrivò alle prime case e fortunatamente lui abitava proprio vicino a un’antica porta d’accesso della vecchia cittadina, così il tratto da percorrere fra il selciato urbano fu breve. C’era il coprifuoco, nessuno in giro, solo il vento di tramontana che mulinellava tra i vicoli. Arrivato al portone di casa, furtivamente entrò, non c’era la luce elettrica nelle vecchie scale sbrecciate; si tolse gli scarponi per non far rumore: al primo piano del palazzo, ospite della famiglia che vi risiedeva, era alloggiato un ufficiale tedesco. Dick aveva il cuore in gola quando passò dinanzi a quella porta da dove filtrava ancora la luce da sotto l’uscio e da dove si sentivano provenire delle voci attutite. Sgattaiolò peggio di un gatto randagio e raggiunse il suo pianerottolo, origliò alla sua porta, qualcuno era sempre sveglio, bussò leggermente, la mamma però sentì lo stesso, lei aveva un udito infallibile, le si era affinato negli ultimi tempi, forse per la paura, e per le emozioni che subiva. Forse era l’orecchio del cuore, in ogni caso fu subito alla porta, aprì uno spiraglio e nel buio del pianerottolo vide solo gli occhi chiari di suo figlio che sgusciò repentino dentro casa. La mamma lo abbracciò, lui aveva i capelli e la barba lunghi, era dimagrito e aveva gli occhi incavati di chi dorme con un occhio solo, non ci furono troppe parole fra loro: lui si mise al tavolino e lei gli scaldò un po’ di minestra, gli tagliò del pane e un pezzo di formaggio.
Cap. 6 – Il ritorno alla macchia
Rimase a casa per una settimana, sentendosi come un animale in gabbia e con la voglia di ripartire che gli mordeva le budella.
Così una sera senza luna decise che era il momento di riprendere il sentiero della macchia, andare ancora incontro al proprio destino, per ritrovare i compagni, che nel buio di quelle notti dell’inverno più freddo del secolo lo aspettavano acquattati fra le frasche del sottobosco. Oramai conosceva i percorsi dei partigiani e non ci mise molto a ritrovare la sua compagnia, quella che poi sarà ricordata come la 3° Brigata Garibaldi-Banda Camicia Rossa.
Dick era ormai considerato un veterano, anche se era alla macchia solo da pochi mesi, che però sembravano secoli, aveva subito la sconfitta della perdita dei compagni ai Capanni, poi il rastrellamento della "Tana" e lo smembramento della compagnia quindi, come "vecchio" della banda, gli furono affidate sempre nuove missioni, sempre più rischiose.
Un giorno il Maggiore consegnò a lui e ad un altro compagno un dispaccio da portare su in montagna al comandante della XXIII Brigata Garibaldi. Dick sentiva quella missione come una cosa importante, il biglietto era come se gli bruciasse nella tasca della giacchetta, infatti in quella lettera c’era la richiesta del Maggiore di avere cento uomini armati per occupare finalmente la cittadina, in quanto i tempi erano ormai maturi: gli alleati avanzavano inesorabilmente verso Nord e quella sarebbe stata la volta buona per sferrare l’attacco finale ai nazisti e ai traditori repubblichini.
Quando arrivarono al distaccamento furono riconosciuti e portati al cospetto del Comandante, e lì per lì non fu proprio un bel benvenuto; il momento non era dei migliori era stato appena ammazzato un giovane della Brigata e nel gruppo aleggiava lo scoramento più totale. Il Comandante gli fece capire che il suo gruppo controllava un’altra zona del vasto territorio collinare e che non poteva certo privarsi dei suoi uomini proprio in quel momento. Questa era la risposta per il loro Maggiore! L’unica cosa positiva di quella spedizione fu che alla fine il Comandante gli fece un regalo: gli donò due fucili Sten, un fucilino inglese leggero e preciso che fece la gioia di Dick che da allora si sentiva più protetto e sicuro, perché come diceva sempre il Maggiore: "Il fucile per il partigiano è importante come la sua stessa vita".
Intanto passavano i giorni e le notti nella macchia, fra colline che si riempivano di tenere foglie verdi e di fiori di campo: quel lungo, maledetto, freddo inverno se ne andava lentamente e dormire fuori diventava un po’ meno duro, anche se gli occhi rimanevano sempre aperti a ogni fruscio, a ogni scricchiolio, a ogni verso di animale.
Dick arrivato ragazzo, ora era diventato un’altra cosa: aveva visto la morte in faccia, l’aveva sentita sibilare fra i vestiti, aveva avuto la paura come compagna fedele, la nostalgia come amica lontana e l’ideale come sogno vivo e consolatore: ora era un compagno, un partigiano, un uomo!
In quei tempi crudi e scuri mai bisognava pensare che fosse finita, ogni notte aveva un’insidia rinchiusa, ogni giornata di sole aveva la sua bomba pronta a cadere vicino a te! La speranza di una prossima fine colma di vittoria era sempre presente nei cuori di quei ragazzi acquattati in quella macchia, ma i compagni continuavano a morire, la gente viveva nella paura e con la fame nelle budella, le famiglie erano smembrate, si viveva con una fatica enorme e si stentava a vedere una luce in lontananza.
Gli "alleati", parola che sembrava magica, forse erano dei marziani che dovevano piovere da un momento all’altro da qualche parte del cielo, portando mille cose buone, scacciando i cattivi e malvagi soldatacci neri e facendo sorgere un sole grande e caldo che sarebbe durato per sempre.
Questo era l’ingenuo pensare della gente in questo pezzo di mondo e in quel periodo della storia.
Ma prima che gli alleati arrivassero, che il grande sole sorgesse, e che ci fossero tante cose buone da mangiare, quelle contrade dovettero passare ancora giorni inattesi e paurosi,che avrebbero cambiato per sempre quelle colline.
Le giornate di giugno si facevano sempre più lunghe e calde, le notizie che trapelavano in formazione parevano dire che gli americani erano vicini, che l’Italia piano piano sarebbe stata liberata, ma che si doveva essere sempre più attenti e cauti negli spostamenti e nelle azioni, soprattutto ci doveva essere un coordinamento fra i vari gruppi di armati per affondare definitivamente il nemico che stava pensando a scappare.
Fu così che si arrivò alla decisione finale: bisognava agire, muoversi, farsi vedere dalla popolazione, darle il conforto che si aspettava, incoraggiarla all’ultima resistenza.
La III Brigata Garibaldi decise di muoversi verso il villaggio minerario dal quale per Dick tutto era cominciato e che quindi conosceva bene.
Fu proprio Dick e altri quattro partigiani che furono incaricati di fare un’incursione al villaggio per rendere chiaro a tutti che loro c’erano ed erano pronti a intervenire.
Che emozione per Dick in quel pomeriggio caldo di giugno arrivare attraverso il bosco nel piazzalone del villaggio: lì era stato tante volte quando, giovane manovale della famosa ditta di provetti muratori, aveva costruito i moderni palazzoni per gli operai e i camerotti per gli scapoli e poi c’era ritornato in pianta stabile come minatore nella grande miniera di pirite. Sembrava che fossero passati dei secoli da quando si era lasciato dietro l’omino delle paghe che lo salutava come futuro milite della Repubblichina, mentre lui si allontanava sulla sua bicicletta sgangherata verso la sua nuova vita.
Ora Dick era un’altra volta qui come un uomo nuovo, con a tracolla un fucile, con nel cuore degli ideali di libertà e di uguaglianza, era con dei compagni come lui, voleva gridarlo a tutto il mondo che il momento era vicino, voleva abbracciare tutti quelli che incontrava e dire loro: "Su, alzatevi! Non torneranno mai più, ci riprendiamo la nostra miniera!"
Vicino al piazzale c’era il campo di bocce e a quell’ora si erano radunati un po’ di minatori per dar due colpi al boccino, alcuni bambini se ne stavano ai lati del campo ad ammirare le magnifiche bocciate dei grandi.
A un tratto videro arrivare dalla macchia quel manipolo di giovani, vestiti alla militare, che nascondevano a malapena dietro i loro corpi dei fucili. Il gruppo andò verso la caserma dei carabinieri, uno di loro puntò la mitraglia verso la porta mentre gli altri entrarono dentro. Tutto era sospeso in un attimo eterno e terribile, ma dopo qualche istante i carabinieri uscirono disarmati, non fu sparato nemmeno un colpo, non ci fu nessuna violenza, come se i militi avessero già deciso da tempo che, se fosse capitata una cosa del genere, si sarebbero comportati così.
Intanto i giocatori di bocce e i bambini erano rimasti immobili e muti, come in un fermo immagine, nessuno era fuggito o aveva urlato, tutti aspettavano che quell’attimo passasse indenne.
Poi quando i partigiani riapparvero nel piazzale andarono loro incontro, li abbracciarono, i bambini li toccavano per vedere se fossero veri: si conoscevano perché anche quei ragazzi erano minatori di quella miniera.
I fascisti del villaggio erano fuggiti verso i comandi dei tedeschi e tutti pensavano che non sarebbero più ritornati, orami avrebbero seguito i loro scellerati alleati in fuga verso il Nord.
I ragazzi della brigata issarono una bandierina bianca sul pennone davanti al dopolavoro come segno per gli aerei alleati di non bombardare una zona ormai liberata, poi se ne andarono verso le case dei fascisti, entrarono, presero le loro lugubri camice nere e i vecchi gagliardetti delle adunate, li buttarono dalla finestra e li diedero fuoco come a volersi liberare di tutti quegli anni di angherie: il fuoco come purificazione da ogni male, come distruzione del male stesso.
In seguito a quella visita dei partigiani, i minatori che non erano mai stati fascisti e che avevano profondamente a cuore le sorti della loro miniera, come unico bene per loro e per i loro figli, decisero che il momento era venuto anche per loro di fare qualcosa. Sapevano bene che la miniera era uno stabilimento ausiliario, di primaria importanza per l’economia nazionale, un sito strategico e anche pericoloso, esposto a eventuali ritorsioni dei tedeschi in ritirata.
Fu così che decisero di difendere il loro lavoro, il loro pane da chiunque avesse voluto fare qualcosa di male: istituirono una sorta di guardia armata, una guardia che ricalcava gli antichi turni fatti da sempre nel lavoro quotidiano in miniera; gli uomini validi pel paese rispolverarono carabine, fucili da caccia e vecchi tromboni dell’uno, così da essere pronti a dare l’allarme se qualcuno si fosse avvicinato con fare minaccioso.
Dick insieme agli altri, dopo essersi annunciati alla popolazione con questo fare un po’ goliardico, cantando e urlando a squarciagola e coinvolgendo i giovani del villaggio in questa sorta di festa anticipata, non mancarono di far visita alla direzione della miniera e al loro "amato" Direttore.
La visita fu di "cortesia" ma anche di grande utilità ! Arrivarono nei magazzini per prelevare cose che sarebbero servite in formazione: viveri, scarpe, cerate, candelotti di dinamite. Dick, entrando in quel magazzino, sembrava fosse come un ragazzetto che entra in un negozio di giocattoli per prendersi tutto quello che vuole; si arrampicò sugli scaffali, tirando giù tutto quello che poteva sotto gli occhi poco accondiscendenti del Direttore, che così l’apostrofò: " Ehi tu, non ti sembra di esagerare con tutta codesta roba?". Dick non aspettava altro, forse l’aveva sempre aspettato quel momento, il piccolo minatore davanti al grande direttore generale, il sottoposto davanti al potere, e così rispose: "Ma non si ricorda di quando venivo a chiederle un paio di scarpe nuove per lavorare perché le mie erano sfondate e lei mi diceva che quelle che avevo mi dovevano fare ancora per un altro po’? Beh, adesso mi prendo ciò che mi spetta e con gli interessi!". Così, dopo l’esproprio al magazzino per conto del CNL, per salutare con grazia il caro Direttore, Dick entrò nel suo bell’ufficio e, visto il suo cappellone a larghe falde da texano sopra l’attaccapanni, lo prese, fece un saluto in stile moschettiere, se lo calò sulla testa e uscì con un sorrisone a sessantaquattro denti.
Tre giorni dopo, i partigiani se ne andarono com’erano venuti, come fossero stati una visione, sparirono nel folto della macchia con il loro bottino, lasciando la gente del villaggio con la speranza che tutto sarebbe ben presto finito.
Passarono così dei giorni infiniti, calmi, caldi e nello stesso tempo pieni di tensione, un tempo sospeso nel nulla, in attesa di un evento, di uno scoppio, di un delirio che avrebbe riportato il tutto alla normalità dei vecchi tempi.
Ma a volte gli eventi prendono strane strade, come l’acqua che s’infiltra piano piano in ogni anfratto, si allunga e si accorcia, si riempie e si vuota prendendo la forma delle cose e questa forma a volte è imprevedibile e orrenda.
Fu così che in quel villaggio placido, adagiato sui fianchi verdeggianti della collina boscosa, al fianco del grande buco nero della miniera, arrivarono all’alba di un lungo giorno di metà giugno, come un branco di cani selvatici affamati, i tedeschi, i fascisti, i militi repubblichini, urlando, imprecando, sparando in aria, svegliarono quelle povere anime che dormivano nei grandi caseggiati popolari.
Che cosa successe? Tutte le cose orrende che in quella disgraziata guerra "gli uomini neri" avevano fatto in tutta Europa, uccisioni, violenze, incendi, ruberie, la distruzione di intere comunità.
Il povero villaggio in quei giorni si ritrovò al centro della Storia più tragica che si potesse immaginare. I soldati rastrellarono tutte le case, uccisero sul posto sei minatori e ne deportarono altri centocinquanta. Con dei vecchi camion li trasportarono in un paese vicino con la feroce menzogna di effettuare dei "lavori straordinari". Le donne, i bambini e i vecchi rimasero come orfani: era successo tutto così in fretta, dall’euforia di qualche giorno prima erano passati alla tragedia delle uccisioni e dei sequestri subito dopo, senza sapere il perché.
Che cosa avevano fatto?, dove erano gli uomini?, che gli sarebbe successo?, sarebbero ritornati? Certo che sarebbero ritornati, in fondo erano solo dei minatori e non avevano fatto mai male a nessuno, avevano solo lavorato e mandato avanti le loro famiglie, cresciuto i figli, erano tutti solo dei bravi uomini.
Invece furono quasi tutti uccisi. Rimasero rinchiusi dentro il cinema del paese per due giorni, li separarono per mezzo di appelli e ancora appelli, così rimasero in settantasette, li fecero uscire dal cinema e incamminare verso i soffioni e li fecero scendere in un vallino che allora era pieno di covoni di grano appena tagliato, con il sottofondo mostruoso del boato dei "soffioni" che eruttavano poco distante. Dietro ai covoni erano celate le mitraglie, gli uomini scendevano a piccolo gruppi, andando incontro a quella morte assordante, precipitavano a terra, e il loro sangue rosso colava sulle messi appena tagliate; quelli dietro arrivavano e cadevano sopra ai loro fratelli appena falcidiati e così di seguito, e ancora, fino a quando l’ultimo corpo fu sceso nel baratro.
Poi il rumore dei soffioni seguitò come se niente fosse stato, il vento continuò a passare sulla vallata, sulle messi, sugli animali, sulle case, e sui corpi ormai spenti dei minatori abbracciati gli uni agli altri come per tenersi compagnia per sempre.
A quell’epoca le notizie ci impiegavano un po’ ad arrivare, anche quando si trattava di notizie indicibili, quindi della strage dei minatori si seppe poco e niente per alcuni giorni; perfino le famiglie rimasero per un po’ nell’attesa del ritorno degli uomini senza conoscerne la sorte. Solo quando i superstiti, che erano stati scartati dalla mattanza, tornarono a piedi verso il villaggio, raccontarono quello che era avvenuto. Allora si poté dare voce al dolore immenso che si era disteso come un velo nero su quella collina e che aveva il rumore di un silenzio assordante e vuoto.
Anche Dick e gli altri vennero a sapere della tragedia e ci si può immaginare i sentimenti che passarono nelle teste e nelle pance di quegli uomini che, anche se abituati alla guerra, alle privazioni, alla violenza e alla paura, rimasero annichiliti di fronte a tanta sciagura.
Cap. 7 – La Liberazione
La vita continuava a scorrere come un fiume lento che trasporta dentro di sé detriti di ogni genere, rotola su tutto, consuma tutto, ma è sempre più forte di tutto e di tutti.
Così anche quel tempo disgraziato passava inesorabile e andava comunque verso una meta tanto bramata quanto ineluttabile: "La liberazione".
Gli alleati erano arrivati alle porte della cittadina, con i loro potenti mezzi, carri armati, autoblindo, soldati bianchi e neri, musica allegra di sottofondo, e "cingomme", italianizzazione locale dell’inglese chewing gum. Ma non era ancora tutto finito, anzi gli ultimi giorni di guerra furono pieni di episodi cruenti, di attentati, di agguati, di operazioni rischiose.
Vicino al paese, sotto alla collina una potente batteria tedesca formata da quattro cannoni di grosso calibro e una radio trasmittente su di un camion, facevano ancora danni, sparando a destra e a manca e rallentando di molto l’avanzata degli americani. Fu così che il Maggiore cercò una squadra di volontari per intervenire contro questa batteria e Dick rispose: "Presente!". L’operazione ebbe esito positivo, la batteria fu sbaragliata e la radio distrutta. Questa azione ebbe grande eco, ne fu data notizia anche nel bollettino di guerra e quindi trasmessa a Radio Italia Libera ed elogiata dai comandi americani che riconobbero che quest’impresa aveva reso il loro cammino verso la cittadina molto più rapido.
Fu in seguito a questa operazione che il Maggiore decise di fare una sorpresa a Dick, per il contributo che aveva dato alla causa, per come si era speso in tutti quei mesi di sacrifici e di stenti: volle premiarlo come si fa in un esercito vero, con una decorazione militare, proponendogli i gradi di sergente. Quale onore! Ma Dick alla sua maniera, con quella ritrosia che l’aveva sempre contraddistinto, declinò l’onorificenza e rimase per sempre e solo un partigiano semplice.
Così si arrivò al 24 giugno: la formazione compatta e al meglio di sé, si dirigeva verso il paese, come un esercito vero, fatto di uomini che avevano combattuto per il loro futuro, per la giustizia e per la libertà, e tutto questo si leggeva sui loro volti provati, scarni, barbuti e ispidi, ma pieni di sole, di un allegria appena ritrovata: era quella vita inesorabile che nonostante i lutti e le sciagure si affacciava di nuovo su quelle belle facce. Purtroppo durante il tragitto verso la città, dovettero assistere ancora una volta a quello che questa guerra vigliacca continuava a produrre come un animale ferito che si dimena nel momento della morte. Vicino a un podere videro un vecchio seduto su di un sasso che piangeva disperato: il Comandante gli si avvicinò chiedendo che cosa avesse e il poveretto poté solo indicargli con la mano l’aia dietro al casolare, dove videro alcuni corpi ricoperti appena da dei lenzuoli e con dei pugnali ancora conficcati nelle carni. Uno di quei corpi era proprio il cugino di Dick, quello del maiale: purtroppo la profezia contadina si era avverata, aiutata dalla ferocia di una guerra fra fratelli.
Il "bentornato" fu ancora funestato da un’altra notizia che il gruppo apprese durante quel tragitto diventato così lungo: anche una donna era stata ammazzata in quel giorno in maniera orrenda, strappata via dalla sua famiglia, condotta in un podere, torturata e uccisa e poi miseramente raccolta e portata in paese con i suoi lunghi e giovani capelli biondi che pencolavano dal bordo del carro.
La donna si chiamava Norma ed era conosciuta da tutti, la donna più bella, appassionata, moderna che quel paese avesse mai avuto; era una senza paura che, con compassione, a suo tempo aveva dato sepoltura a un partigiano ucciso e abbandonato sulle scale della chiesa. Lei era non solo una staffetta partigiana, era una speranza per tutti quelli che avevano bisogno in quei tristi tempi.
Anche questo dovettero vedere Dick e i suoi compagni nell’ora che doveva essere la più bella!
L’arrivo al paese fu attraverso il fianco nord della collina, su per una stradetta sassosa e in salita e, quando l’esercito cencioso dei partigiani percorse lo stradello incontrò una troupe dell’esercito americano che, poi si seppe, filmò lo sbarco in Italia dell’armata americana e tutto il percorso attraverso la penisola che la portò fino alle Alpi. La formazione di Dick al gran completo passò davanti a quelle telecamere, con il passo pieno di baldanza, ecco apparire anche il nostro con in testa il grosso cappello del direttore e con il suo sorriso dispiegato verso quell’improvviso obiettivo. Non avrebbero mai pensato che sessant’anni dopo quelle immagini in bianco e nero sarebbero finite dentro a delle videocassette, riprodotte in migliaia di copie.
L’incontro con gli americani, che arrivarono su dei camion e delle autoblindo, fu di pieno riconoscimento per "i nostri": furono loro fatti gli onori militari come si addice a un valoroso esercito. Purtroppo subito dopo si dovette constatare quale differenza ci fosse fra le due formazioni che si erano appena incontrate: la III Brigata Garibaldi aveva al suo seguito una cinquantina di prigionieri tedeschi e appena gli americani li videro, ne presero una decina, strapparono loro di dosso le camicie, lasciandoli a torso nudo, li fecero allineare sul bordo di un fosso e volevano fucilarli seduta stante per vendicare il gruppo di contadini che erano stati trucidati nell’aia del podere che avevano appena visitato. A quel punto il Comandante italiano, urlando, si mise davanti ai prigionieri, affermando che erano i suoi prigionieri e che sarebbero stati giudicati da un tribunale militare. Ci fu un lungo momento di tensione, l’ufficiale americano spinteggiò il Comandante e per un attimo si sentì solo il ticchettio degli otturatori delle armi dei partigiani e quello degli americani, fu un attimo, al quale seguì un silenzio infinito.
Poi il comandante americano desistette dalla sua impetuosa decisione e senza salutare nessuno salì sul suo automezzo e si allontanò.
Questo fu il primo incontro tra i partigiani e gli americani a Massa!
Appena arrivati in paese, la popolazione festante si fece intorno ai nostri, chi offriva pane, formaggio, vino, vestiti un po’ più puliti di quelli che avevano, e anche bricchi di caffè d’orzo; i partigiani furono sopraffatti dall’affetto di chi finalmente si sentiva liberato!
La festa durò poco però, perché il nostro esercito partigiano fu invitato a recarsi al cinema del paese, che era stato già occupato dagli americani, per deporre le armi che ormai non sarebbero più servite. La delusione fu enorme nelle file della Brigata, anche perché il comandante americano parlò con una certa arroganza e con un fucile ben stretto nella mano destra. Ci furono ancora momenti di tensione, i ragazzi rumoreggiavano, urlavano, piangevano, nessuno voleva cedere la propria arma, e poi in questo modo!
Il Maggiore ebbe da fare a ricomporre le fila, prese tempo e fece andare tutti via; solo dopo qualche settimana le armi furono consegnate.
La guerra era finita! La Resistenza era finita! No la Resistenza non era finita, sarebbe continuata ancora per lungo tempo, almeno quegli ideali, quei valori, quelle ansie che avevano spinto tanti ragazzi a prendere le armi e il proprio destino in mano, a liberare il proprio paese dall’ingiustizia, dalla violenza, dalla guerra, dalla mancanza di libertà. Avevano combattuto per tutti, e anche per quelli che sarebbero venuti dopo, non si sarebbero più dimenticati di quei giorni, ormai erano altri uomini.
Cap.8 – Un altro giorno
Molte lune passarono, il sole si risvegliò tante volte e Dick si comprò la "Lambretta".
Eccoci, io e lui, in una bella mattinata calda di giugno sulla spiaggia della Polveriera, sotto due pini, alla mezz’ombra, la motocicletta poco distante, il sacco di tela blu pieno di cose buone per uno spuntino: pane con la mortadella, due pomodorini maturi, e un birrino Pilsen, forse le cose più buone al mondo se mangiate a 10 anni impregnate di quell’aria salmastra, con gli occhi semichiusi, e il mare lì davanti.
Dick finisce di mangiare e mi dice: "Tu aspettami qui, stai attenta che il materassino non voli via e non ti azzardare ancora a fare il bagno! Io vado fino al Pontile guardo se faccio du’ arselle".
- Fine
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