Cap.1 - Com’era cominciata
Com'era cominciato tutto non so bene, posso immaginarlo dal ricordo dei racconti spezzettati, nelle frasi butatte lì alla fine di un pranzo bagnato da vino bianco e spumante dolce. Però questi ricordi non sono niente di scientifico, né di storico, né di tecnico, solo la memoria di tanti anni passati insieme affettuosamente, che mi viene la voglia di raccontare come se fosse una bella favola per i miei figli...
Dunque, il 1922 fu un anno particolare per questo paese: parecchi uomini "neri" con a capo un "testapelata" avevano fatto una strana "marcia su Roma", lì si erano insediati, lì avevano cominciato a comandare, a fare e disfare, a togliere soprattutto la libertà, piano piano, come se niente fosse, giorno per giorno.
In quello stesso anno nasceva Dick, uno nato alla macchia. Sua madre, infatti, lavorava nelle carbonaie e il bimbo in fasce veniva posto in un paniere vicino a lei che intanto lavorava sodo per tutta la giornata. Quell’aria, quegli odori di sottobosco, di saggina, di funghi, di muffe, devono essergli rimasti impressi nel naso e nel cuore e non lo hanno abbandonato più. Cresciuto in quei tempi duri e "romani", non aveva mai conosciuto nella sua gioventù che ordini, bacchettate sulle nocche delle mani da parte di solerti e cimurrosi maestri, lavori umili e grezzi, rimproveri, scappellotti e pedatoni nel culo.
Dick abitava all’inizio del paese, in una palazzo alto alto, naturalmente all’ultimo piano, dove le finestre si facevano più strette e più corte. Affacciandosi a una di quelle finestre che dava sulla via principale d’ingresso all’abitato, vedeva l’andirivieni di chi entrava e usciva dalle botteghe artigiane piene di vita e di urla che si aprivano sotto casa sua. Ce n’era una in particolare che gli piaceva molto, la bottega di un bottaio, proprio all’inizio della strada, sempre piena di gente: l’artigiano era uno uomo grosso e sempre allegro, cantava e suonava la chitarra e aveva sempre al collo un fiocco nero. A volte però Dick vedeva quell’uomo chiudere frettolosamente il suo laboratorio all’arrivo dei militi che se lo portavano via sottobraccio: ma dove andava? E perché veniva prelevato proprio in quel modo, che sembrava brutale non solo agli occhi di un bambino? Qualcuno gli disse che il falegname era un anarchico, chissà cosa voleva dire? Tutte le volte che arrivava in paese qualche pezzo grosso del Regime, oppure c’erano delle cerimonie, o dei festeggiamenti, il pover’uomo veniva preso così dalle guardie e portato in prigione, per paura che facesse qualcosa di strano, per precauzione… Ma quell’uomo così mite e allegro che cosa avrebbe potuto fare di male? Lui era solo e loro in tanti e ben armati!
Questo vedeva Dick e queste cose non gli tornavano per niente.
Intanto cresceva, ma rimaneva sempre piccolo e gracile come un grillo, con i capelli chiari come la paglia. Il babbo lo mandò a fare il garzoncello nella fattoria dello zio, giù nella piana assolata e piena di messi. Gli davano vitto e alloggio, qualche vestituccio smesso e una paghetta alla fine della settimana, ma non era certo regalata quella moneta, il ragazzo si dava da fare e, alla fine delle lunghe giornate di solleone, si buttava ormai stracco sul pagliericcio di foglie di granturco fino all’alba dell’indomani.
Cresceva, ma senza adolescenza, come si usava a quei tempi, pensando alla mamma che lavorava più di lui alla macchia, a fare il carbone, a lavare i panni degli altri, a tenere la casa con i quattro figli e il marito, su cui non poteva contare perché era un farfallone, uno che combatteva contro i mulini a vento, uno che pensava per sé e non a quella povera famiglia, uno che pensava solo al suo stomaco e non a quello dei figli. Egoismo dovuto ai tempi grami forse, mah… forse era così e basta, e la madre neanche se lo chiedeva il perché e non poteva far altro che sgobbare ogni giorno da mattina a sera. Dick, quando per il giorno del "Ceppo" trovò inaspettatamente come regalo, un cavalluccio di pezza tutto per lui, lo riportò alla madre e le disse di comprarci il latte per tutti che forse era meglio. Chissà se la mamma lo accontentò?
Era un bambino fatto così, rude e sensibile allo stesso tempo, uno che piangeva a dirotto e a volte non piangeva mai; come quel giorno che il babbo, più arrabbiato che mai perché non voleva mangiare il solito brodino lungo lungo, lo prese a calci nel culo e poi lo scaraventò con tutta la sua forza fuori dell’uscio di casa, dove non c’era neanche la luce nelle scale. Il poverino si rannicchiò con le braccia che gli cingevano le ginocchia sbucciate e cominciò a piangere per la paura, per l’abbandono, perché si ricordassero di lui, piangeva e piangeva, ma sempre con meno forza, con singhiozzi sempre più deboli, fino a quando smise, con gli occhi gonfi che ormai si erano abituati al buio di quelle fredde scale; alla fine le braccia della mamma lo presero con morbidezza estrema e lo riportarono alla luce fioca di quella povera cucina.
Gli anni passavano e Dick, ragazzetto di 14 anni, lavorava sempre e sempre più duro; ora faceva il manovale presso una ditta locale di muratori scelti. Era sempre gracile e con le spallucce un po’ strette, perché la paiola che si portava sulla spalla sinistra per tutto il giorno, dai e dai, lo aveva fatto crescere con una spalla più bassa dell’altra, e anche da vecchietto quella postura antica lo avrebbe sempre caratterizzato, ahimè!
Lavorava e lavorava, il lavoro non mancava: quella terra a quei tempi era terra di immigrazione. C’erano le miniere che richiamavano operai da ogni parte d’Italia, e così nascevano anche i villaggi minerari, proprio come quelli sorti in Inghilterra o quelli dei cercatori d’oro in America! Qui l’oro era la pirite, e i villaggi s’ingrandivano, si costruivano case popolari per le famiglie dei minatori, i "camerotti" per gli scapoli, gli spacci aziendali, i "dopolavoro" e perfino le chiese.
Ecco che l’impresa edile di Dick non aveva sosta e operò instancabilmente per anni proprio in uno di quei villaggi immersi nel verde e nelle rocce, all’ombra dell’incombente miniera. Il ragazzo aveva un lavoro sicuro, anche se duro, che gli aveva impedito di far crescere le sue spalle allo stesso modo. Più avanti nel tempo, si ricorderà bene di quelle case che lui aveva contribuito a costruire, quando in un’alba che doveva essere annuncio di un giorno radioso, successe la tragedia più grande che quelle genti semplici e operose potevano immaginarsi, ma di questo arriverò a raccontare fra un po’.
A quel tempo l’adolescenza non esisteva, era un lusso che generazioni e generazioni non si sono potute permettere, da bimbetti s’iniziava ad aiutare la famiglia con i primi lavoretti e si passava quasi senza accorgersene già all’età adulta, con l’enorme responsabilità di guadagnare il pane per le numerose bocche di cui erano composte i nuclei familiari.
Il nostro Dick, non faceva eccezione, anzi per lui forse fu anche più duro, benché ultimo figlio dopo tre sorelle, era l’unico uomo di casa dopo il padre, che però non apportava molto all’economia della sua famiglia: tutto preso com’era nelle sue imprese impossibili, cercava ogni pretesto per inventarsi un affare che avrebbe risolto tutti i problemi, ma che alla fine si rivelava un castello di carte che crollavano al primo filo di vento. Pertanto si premurava di accaparrarsi quel poco cibo che poteva e se lo rinchiudeva a chiave in uno stipetto dell’armadio; per i figli c’era la solita minestra lunga che serviva solo a risvegliare i morsi allo stomaco di una fame antica.
Cap. 2 – Il buco nero
Dick allora, dopo aver imparato bene il mestiere di muratore, pur rimanendo sempre "mezza mestola", decise di cercarsi il lavoro più sicuro che potesse esserci da quelle parti: "Il cavaiolo o minatore, che dir si voglia".
Quel tipo di lavoro non mancava: quell’area era tutta un buco, da nord a sud, da est a ovest, e da tutte le parti d’Italia arrivava gente, che andava a sotterrarsi sotto quelle colline alberate, nella pancia di quella terra che era stata spremuta di metallo fin da tempi dei nobili Etruschi e poi risaliva nel mondo di sopra, per finire a bestemmiare a gambe all’aria nelle vinerie del paese.
Il nostro Dick, dunque, divenne uno dei tanti cavatori del paese, di quelli che partivano in bicicletta da casa per farsi i sei chilometri che li separavano dalla miniera di pirite.
Vicino alla miniera in cui lavorava sorse, come ho accennato, nei primi anni del ‘900 una sorta di villaggio-fungo, un agglomerato di case sulla cima di una collina verdeggiante, piena di noccioli. Non si può parlare di paesino, ma proprio di villaggio, come quelli che nel Far West spuntavano d’incanto, dal giorno alla notte, accanto ai filoni d’oro. Questo piccolo borgo era stato costruito accanto ai filoni "dell’oro degli sciocchi" come era chiamata la pirite, un oro che rappresentava il pane e il companatico per tante bocche che avevano la ventura di nascere da queste parti.
L’abitato era suddiviso per classi sociali: in alto la bella villa del direttore circondata da un magnifico giardino pieno di aiuole fiorite, con tanto di giardiniere che se ne occupava; vicino a questa, come pulcini intorno alla chioccia, le case degli impiegati della miniera, del dottore, dell’ingegnere; poi si scendeva verso la piazza con il dopolavoro aziendale, lo spaccio aziendale, la chiesetta dedicata a S. Barbara, protettrice dei minatori; infine, ancora più in basso, si stagliavano i palazzoni del popolo, degli edifici grigi e allungati, sorta di monoliti, che assomigliavano stranamente alle case di ringhiera di Milano. Erano pieni di gente, soprattutto di tanti bambini che uscivano a frotte da quei portoni sempre spalancati come delle enormi bocche.
Dick si ricordava bene di quei palazzoni, come già abbiamo avuto modo di ricordare, perché quando era un giovane manovale ci aveva lavorato a lungo: un pane duro da masticare, e una spalla per sempre più bassa dell’altra, ma alla fine dei suoi lunghi e onorati 40 anni di lavoro si era ritrovato "le marchette" pagate anche di quegli anni di manovalanza e in cuor suo aveva sempre ringraziato caramente la famosa ditta di muratori scelti che gli avevano insegnato le basi dell’arte muraria ed era stata onesta con lui.
Il lavoro di miniera era duro, questo si sa: partire con la bicicletta a buio e ritornare a buio, con la strada ghiacciata d’inverno e polverosa e piena di moscini d’estate, poi la "gabbia" che t’inghiottiva per otto ore, nel buio, nel rumore, nel fango, nel caldo, nel sudore, nei topi, nel fumo, nelle esplosioni, nei bagliori. Era il mondo di queste terre, sempre così dall’inizio dei tempi, con il suo pesante tributo di morti e feriti che erano estratti dalla terra.
Dick non chiedeva più di tanto, aveva trovato quel lavoro lì e lo aveva accettato di buon grado come fosse un destino comune a tutti i giovani di quelle colline, anche se il suo babbo non gli aveva dato il buon esempio e si era tenuto ben alla larga da quell’impiego duro e feroce.
Il nostro era di un’altra pasta, pensava alla sua mammetta, china sui panni da lavare e sotto le balle del carbone da trasportare, pensava alle sue sorelle che ancora non si erano maritate: lui era l’uomo di casa, sua era la responsabilità di mandare avanti la baracca, così senza neanche pensare era andato alla miniera, per essere inghiottito sotto quella terra ricca e sfavillante, per riscuotere alla fine del mese quei soldi sicuri e salati che metteva tutti in casa.
Ma quelli non erano anni bui solo perché Dick e tutti gli altri se ne stavano sotto terra tutto il santo giorno, erano anni bui anche perché gli uomini neri di testapelata dominavano incontrastati per ogni dove. Dick, come ho detto, era nato proprio l’anno fatidico della marcia famosa, della democrazia decapitata, del re piccolo piccolo che se l’era fatta sotto e aveva abdicato a quest’altro omino piccolo ma prepotente, che piano piano si era fatto largo in quella comunità un po’ fragile e paurosa, bigotta e un po’ tronfia, ma anche illusa.
C’erano però vaste aree territoriali in cui le idee che giravano prima del triste Ventennio non erano proprio morte, erano talmente radicate tra la gente che continuavano a serpeggiare sotto sotto, vivevano nell’interno delle case, ma anche a margine delle grandi fabbriche e nelle miniere, dove il lavoro era più duro, e dove le ingiustizie, i soprusi, le angherie si subivano con maggiore violenza e con tanto disagio.
I vecchi erano la memoria di queste idee, loro che avevano avuto la fortuna di nascere "prima", di aver respirato "un’altr’aria", ancora intrisa tutta di Risorgimento, di Garibaldi e Mazzini, di camice rosse al vento, di gloriose gesta, di grandi speranze, di riscatto dei deboli, e questi vecchi si portavano dentro tante cose e appena ce n’era occasione le raccontavano ai più giovani, a quelli che erano stati solo "lupacchiotti" e "balillini", che avevano avuto solo calci nel culo dai padri e dai maestri, quelli delle adunate, degli squilli di tromba, del "bisogna sempre tacere che Lui ha sempre ragione".
Sembrava che da quei racconti si dispiegasse un’ala protettrice e salvifica, una grande promessa che un mondo diverso era possibile, un mondo fatto di uguaglianza e di giustizia, di libertà, di allegria, di gioia, di festa, di lavoro meno duro e di qualche soldo in più per campare.
Questi racconti riscaldavano l’anima dei più sensibili, dei più pronti, di quelli più svegli, che ascoltavano in silenzio, oppure facevano mille domande, perché quelle dei vecchi erano le prime orecchie che potevano ascoltarli e le prime bocche che potevano dare loro delle risposte. Dick era fra questi, forse l’immagine del vecchio bottaio portato via dai militi per essere rinchiuso in gattabuia ogni volta che c’era un pezzo grosso a parlare gli sarà ritornata alla mente e con quella tutte le altre ingiustizie che aveva visto nella sua breve vita: il peso delle paiole portate sulle spalle da ragazzetto, il maestro che lo bacchettava sulle nocche delle dita, il padre bigotto che lo rincorreva per picchiarlo, il padrone che con arroganza si pigliava il suo tempo migliore e non gli dava neanche le scarpe da lavoro, quando le sue erano sfondate. Tutto questo, e altro ancora che non sappiamo, gli frullava nel cuore e nella pancia e quei racconti dei vecchi minatori gli dovettero risultare buona cosa; cominciò a prendere coscienza che forse si poteva cambiare qualcosa, tutti insieme, reagire, non abbassare ancora più la testa, guardare al futuro con lo sguardo orgoglioso.
Intanto i giorni scorrevano, inverno, dopo autunno, dopo primavera e dopo estate, i tempi si facevano sempre più duri, il companatico cominciava a scarseggiare e anche il pane, la mammetta si arrangiava come poteva, Dick si ammazzava di lavoro in miniera, su e giù in bicicletta per quei sei benedetti chilometri, ogni giorno e ogni notte, avanti e indietro.
Lungo quella strada, abitava un suo caro cugino, in un poderino sotto al paese e Dick a volte si fermava lì "a veglia". Il cugino era più vecchio di lui di qualche anno, aveva moglie e una figlioletta piccola. Una sera d’inverno freddo freddo si era fermato a scaldarsi al focolare di questo cugino per bere un bicchiere di vino rosso insieme. Era buio e nel silenzio della sera a un tratto sentirono bussare alla porta, trasalirono: di quei tempi chi poteva bussare a quell’ora, trattennero il respiro e si misero ad ascoltare, ancora una botta e poi un’altra. Alla fine il cugino si decise, e andò verso la porta: "Chi è?". Nessuna risposta ma, anzi, un altro colpo secco all’uscio. Allora, piano piano, principiò a dischiudere la porta e… meraviglia! Chi apparve come in una favola delle Mille e una Notte? Un maiale, sì un porcello grande, grosso e roseo, il più bel maiale che avessero mai visto. Una visione celestiale con quei chiari di luna in cui si trovavano. Che fare? Non ci pensarono molto su e lo fecero entrare quasi facendogli un inchino. L’ospite entrò, ma i padroni di casa lo guardarono con poco spirito di ospitalità, anzi lo videro trasformato in salsicce, prosciutti e soppressate e iniziarono una riunione familiare sul da farsi. La decisione fu presa alla svelta, non ci volle molto per stabilire che quella sarebbe stata l’ultima ora del signor maiale che si era presentato a quella casa. Come segno del destino quella sera c’era anche Dick, che poteva dare una mano nella faccenda.
Prima d’iniziare l’operazione, qualcuno disse che non portava bene ammazzare un maiale dentro casa, ma la superstizione popolare poco poté in confronto alla fame antica che quelle persone si portavano dentro, così iniziarono a fare quello che dovevano fare e quella notte il porcello grasso fu sacrificato sull’altare della sopravvivenza. Dick fece tardi, ma sulla sua bicicletta, sfidando la notte fredda e buia, si portò dietro un pezzo di quel bottino inaspettato che avrebbe rallegrato per un po’ la magra mensa della sua casa e portato un sorriso sulle labbra di sua madre.
Qualche tempo dopo però "la maledizione del maiale" si avverò per davvero: quel caro cugino fece una triste fine per mano e armi di neri figuri, insieme con altri quattro uomini cadde per quelle contrade come foglia secca da un albero ormai morto… ma anche di questo vi dirò a suo tempo.
Quei giorni, pieni d’incertezze, di miseria, di ristrettezze e di divieti, divennero sempre più bui per molti, mentre per altri si riempirono di splendore e di orgoglio di patria.
Uno di quei giorni il testapelata affacciandosi a un balconcino di un antico palazzo della capitale, annunciò a una moltitudine festante e frastornata, che il nostro Belpaese dichiarava guerra a un sacco di altre nazioni e che tutti dovevano essere fieri di ciò, perché questo avrebbe portato benessere e onore a tutti gli "italiani". Quel giorno molti gioirono e mandarono al vento i loro gridi tribali nel sentire la fatidica parola "V I N C E R E!", pensarono che con quella guerra tutti i problemi sarebbero volati via, avrebbero dato una lezione a tutti i popoli arroganti che credevano di essere più ganzi e finalmente il popolo italico, dalla grande storia passata, sarebbe risorto a nuova vita, avrebbe tramandato per il mondo le sue tradizioni e il suo credo superiore e tutti, magari, chissà!, avrebbero mangiato pastasciutta ogni giorno!
Anche se molti gioirono, ci furono quelli che gemettero piano piano, oppure ci fu chi si arrabbiò di brutto o chi si mise a piangere, altri non seppero che pesci pigliare, insomma, una cosa era certa per tutti: quella guerra si annunciava con tutti i sentimenti.
Cap. 3 – La guerra
La vita cambiò per tutti, la miniera divenne un’industria bellica, una di quelle aziende vitali per la nazione, gli operai erano militarizzati, come se fossero dei soldati; cominciarono a scarseggiare molti beni di consumo e se prima la gente era povera adesso lo divenne ancora di più. Tutti si arrangiavano come potevano, c’era persino un certo Magnagatti, il cui nome rivelava senza equivoci le sue abitudini alimentari. Si scoprivano nuovi sapori: le cipolle crude regine della tavola, l’ortica lessata non era poi tanto male, la frutta e le marmellate erano quelle dei prodotti del bosco: sorbe, corbezzole, more. Alcuni, i più fortunati, avevano il proprio lavoro da scambiare con il cibo: il ciabattino per esempio girava in bicicletta per i poderi per risuolare le scarpe o fare di sana pianta scarponi da lavoro e in cambio otteneva farina, olio,salsicce, polli e formaggio, le cose più adorabili che si potessero avere in quei momenti grami.
Dick si ritrovò allora, come tanti altri uomini, a lavorare per due padroni, la Montecatini e lo Stato "guerriero", e non avrebbe saputo dire quale era il peggiore dei due.
Proprio lo Stato lo chiamò a sostenere la visita per la leva obbligatoria che per quei tempi voleva dire partire per la guerra, anche se Dick in quanto minatore era già un mezzo soldato. La visita dette un esito insperato: fu fatto " rivedibile" proprio a causa di quella sua spalla un po’ più giù dell’altra e anche per il suo esile torace, ma la cosa era solo rimandata.
Intanto però vedeva gente partire: alcuni si arruolavano volontari ma sentiva anche tanti che non sarebbero partiti per niente volentieri.
Al momento le sorti della guerra si mettevano proprio male, la gente soffriva, c’erano morti, feriti, incertezza per il lavoro, fame, distruzioni, gli sfollati che riempivano molti paesi e poi i tedeschi, i minacciosi alleati che si erano sistemati bene all’interno di ogni paese: avevano preso palazzi, castelli, ville e ne avevano fatto i loro quartieri generali. In ogni dove si sentiva parlare quella lingua dura, quasi sempre pronunciata alla svelta, quegli uomini urlavano sempre "schnell, schnell" quando qualcuno passava per la strada. Insomma più che alleati sembravano degli occupanti e la gente non li amava per niente, come non amava molto i loschi figuri neri con fez e pugnali dei vari raggruppamenti militari e militarizzati che spadroneggiavano in ogni dove.
Insomma la popolazione aveva paura, una paura tremenda, ormai non pensava più al futuro, ma solo al giorno dopo, come avrebbe mangiato, come si sarebbe scaldata, e se avrebbe ancora avuto uno straccio di lavoro.
Queste erano state le promesse tradite del caro Testapelata, ecco come si erano ritrovati tutti, tranne quei quattro nobili, possidenti terrieri e proprietari di fabbriche e miniere, che si erano ben arricchiti da questa situazione a scapito di una moltitudine di persone che aveva creduto a una bella favola triste.
Un giorno di mezz’estate poi, all’improvviso il faccione di Testapelata cadde miseramente dai palazzi, si frantumò in terra con rumore assordante, e fece un polverone colossale. Quasi tutti si sentirono un po’ più sollevati, forse ora le cose sarebbero cambiate, la guerra sarebbe finita, i soldati sarebbero tornati a casa, i tedeschi (pfui!) pure, e la vita sarebbe ricominciata: purtroppo anche questa era una favola e le cose andarono che peggio non si poteva!
C’è una data nella storia di questo nostro strano Paese che rievoca sensazioni a raffica, paura e sconforto, perdita della speranza, angoscia, il tutto si potrebbe sintetizzare con un mettersi le mani nei capelli in forma collettiva. Questa data è l’8 Settembre 1943, quando da tutte le radio gracchianti al di qua e al di là del mare fu annunciato, da un altro omino in divisa e cappellone, il motto che tutti gli italiani avrebbero fatto proprio nei secoli dei secoli: " E ora arrangiatevi… e chi l’ha in culo l’ha in culo" per così dire.
Questa frase voleva dire tante cose, una peggio dell’altra: "chi siamo?, chi siamo stati finora?, cosa abbiamo fatto?, cosa bisogna fare?, dove si va?, chi si è tradito? e chi si deve tradire?". Tutte questi dubbi balzellavano nei cuori, nelle pance e nelle teste di ogni italiano, ovunque si trovasse, qualsiasi cosa facesse. A quel punto ognuno prese una decisione in cuor suo, quella che pensava fosse la migliore, oppure quella meno peggio per sé e per la sua famiglia, se ce l’aveva; comunque sia i capi di quello strano Paese avevano lasciato orfani i loro poveri cittadini che in bella parte si scordarono in quattro e quattr’otto di loro e delle vecchie madri degeneri e presero in mano il proprio destino.
Anche nel nostro paesello di miniere, la storia entrò nelle case attraverso le porte e le finestre come una tempesta feroce.
Qualche ragazzaccio scapestrato nella fatidica notte di quell’8 settembre se ne andò a scorrazzare per le vie e i vicoli bui della città vecchia, cantando canzoni a dir poco scostumate per quei tempi, canzoni di libertà e di "sol dell’avvenire", di ragazze e di festa. Ma un prete, con in mano una pistola, dal sagrato della chiesa li minacciò dicendo di andarsene a casa, di stare buoni e di non risvegliare i "cani che dormivano": i ragazzi non capirono.
Intanto però la gente si armava come poteva, chi si teneva a portata di mano vecchi fucili da caccia, e chi si procurava coltelli e baionette dell’altra guerra: quei tempi si prestavano a simili arsenali fatti in casa.
Il nostro Dick non rimase certo indietro, anche lui un po’ inconsapevolmente, un po’ perchè così facevano tutti, si procurò, come non sappiamo, una vecchia pistola, e con quella in mano si sentiva diverso, forse un po’ più forte, forse un po’ meno solo.
La pistola si accompagnava a tanti discorsi fatti di nascosto: infatti il nostro insieme ad altri ragazzi aveva preso l’abitudine di ritrovarsi in un luogo segreto della città per parlare. Si univano a questo gruppo anche alcuni uomini adulti, che avevano fatto la grande guerra o che comunque avevano vissuto la libertà prima di quei tristi vent’anni e parlavano con i ragazzi e raccontavano che cosa succedeva e che cosa ancora poteva succedere e che non si poteva starsene calmi e beati a vedere questo sfacelo, la povera patria dilaniata da tanti cani rabbiosi che non avrebbero lasciato che qualche carcassa puzzolente dietro di loro.
I ragazzi ascoltavano con attenzione, erano storie che già avevano udito in miniera, fra un turno e l’altro, e adesso si sentivano più forti anche in tutta quella disperazione, avevano capito una cosa molto semplice, ovvero che avevano tutto da perdere, la loro giovane vita, il futuro, la bellezza, ma anche che non avevano più nulla da perdere: peggio di così non potevano stare, piccoli schiavi, nel ventre nero della miniera, di gente straniera e di arroganti e meschini figuri.
Sembra strano ma la storia si fa proprio così, in maniera quasi inconsapevole, naturalmente, come bere un bicchier d’acqua fresca, eppure in quei giorni molti presero delle decisioni che di lì a breve avrebbero sconvolto le loro vite, quelle dei loro cari e quella di un intero Paese, ma loro non lo sapevano, fecero delle cose e basta.
Dick in quell’autunno freddo e piovoso continuava con la sua bicicletta ad andarsene alla miniera, ma intanto la grande decisione era presa, aveva parlato con il vecchio taglialegna, il padre di un suo compagno che conosceva bene il territorio, fu lui il suo tutore, il suo mentore.
Ogni giorno si sapeva di ragazzi che sparivano, che non si presentavano alla visita di leva, che se ne andavano di casa, risucchiati nel nulla; piano piano si incominciò a udire le parole "è andato alla macchia", frase che voleva dire tante cose.
Quando uno andava alla macchia voleva dire che si metteva contro il vecchio mondo, che rischiava la sua vita, che chissà se sarebbe mai tornato; voleva dire mangiare poco, dormire nel bosco, sentire gli animali ululare nella notte, avere paura, ma voleva dire anche vivere giorno per giorno per qualcosa d’importante e di bello che appariva però lontano e nebuloso.
Cap.4 – La Banda
Ogni giorno Dick sentiva di qualcuno che se n’era andato, anche lui se n’era andato da tempo, almeno con la fantasia, ma aspettava il momento buono per farlo davvero.
Un giorno di dicembre, più freddo degli altri, era il giorno di paga, il nostro prese la sua bicicletta e pedalò forte forte, voleva arrivare presto agli uffici della miniera, la strada era sdrucciolevole e lui nella sua giacchettina misera aveva freddo. Arrivò agli uffici e l’omino da dietro ai suoi occhiali lo squadrò da capo a piedi: "Che vuoi a quest’ora?" gli disse. " Me ne vado, voglio quello che mi spetta, non ci vedremo per parecchio tempo" gli rispose Dick, e l’omino orgoglioso: " Bravo, Dio bono, così si fa… parti per la guerra, vai a fare il tuo dovere di italiano, sei proprio un bravo ragazzo, buona fortuna!"
Dick prese i suoi quattro soldi, li avrebbe consegnati a sua madre, poi guardò l’ometto con uno sguardo un po’ mascalzone, girò le spalle, inforcò la bici e prese in giù per la strada ghiacciata. Una volta arrivato a debita distanza, si girò di scatto verso i locali della miniera ormai lontani, fece il gesto dell’ombrello e disse delle parole fra sé e sé: "Ma andate tutti in culo, vai!"
I suoi vicini di casa erano oltre che dirimpettai di pianerottolo anche dei buoni amici, la mamma di Dick e la signora che abitava di fronte se la dicevano, e si aiutavano come potevano in quei tempacci; faceva parte di questa famiglia un giovanotto coetaneo del nostro Dick, ma quanto questo era snello e biondo, l’altro era ben piantato e bruno tanto che lo chiamavano "il Moro". Erano cresciuti insieme,avevano fatto mille marachelle e le avevano prese tante, ma tante, dai babbi e dalle mamme e anche quella volta, insieme, decisero di andare alla macchia.
Parlarono con le mamme, che non ebbero né voce né lacrime per esprimere la loro preoccupazione, alla fine le convinsero che sarebbero stati meglio nascosti fra gente amica nei boschi piuttosto che partire in guerra e farsi ammazzare come cani. Naturalmente i due ragazzi non dissero alle donne proprio tutta la verità, perché non la sapevano neanche loro; presero le calze di lana, una camiciola, un po’ di pane, cacio e mele e, al primo scuro, quando ormai tutti erano dentro le case di quell’inizio di freddo inverno, presero giù per le scale, scivolarono lungo il palazzo, girarono l’angolo e le loro ombre lunghe passarono la strada, saltarono giù dall’argine e sparirono come gatti silenziosi nella notte.
Qui il nostro racconto si fa un po’ incompleto, perché forse le cose che narrerò non ebbero proprio questo ordine, ma i racconti che Dick mi ha fatto quando ero piccola si confondono un po’ con le mie favole, oppure con i racconti orridi che i bimbi amano fare per morire di paura, quindi dovete avere un po’ di pazienza, ma forse anche voi non conoscete quei luoghi e quei tempi e quindi posso continuare tranquillamente.
Dick e il Moro si misero in contatto con Ferrino un vecchio carbonaio che conosceva il territorio come le sue tasche, lui era il padre di Bibe, un amico d’infanzia che spartirà con loro le stesse avventure, così raggiunsero il piccolo distaccamento di partigiani che si trovava nelle colline di fronte al paese. Ma chi erano questi partigiani? Questa parola sarà poi conosciuta nella storia e avrà tanti significati, ma allora erano le prime volte che veniva pronunciata perché quelli erano davvero i primi partigiani che si formavano in tutto il Paese. Erano quei ragazzi che si riunivano di nascosto per chiacchierare del futuro e su quello che si doveva fare: erano giovani renitenti alla leva, militari che avevano deciso di non ritornare a casa, minatori che come Dick avevano abbandonato la miniera e che ora si ritrovavano un po’ sperduti, nel buio della macchia che li avvolgeva come un mantello, in mezzo a sinistri ululati di strani uccelli e a fioche luci in lontananza, ma anche sotto a una "luna grande e grossa come una forma di formaggio sospesa nel cielo nero".I due giovanotti arrivarono al campo dei partigiani dove c’era un capanno che fungeva da quartier generale, erano conosciuti dagli altri e considerati fidati; per prima cosa fu detto loro di costruirsi un riparo con quello che trovavano. I due si dettero da fare e col pennato, qualche telo, frasche secche, misero su un riparo, un capannino dove potevano entrare entrambi. Quella prima notte la combinarono proprio bella! Dentro a quel rifugio di fortuna che si erano costruiti ebbero la bella idea di accendere un mozzicone di candela che si erano portato dietro, ma l’emozione e la stanchezza in breve li travolse e si ritrovarono addormentati come bimbi, la candela in poco tempo si consumò e la fiammella si attaccò alle frasche secche del capanno, così di soprassalto si risvegliarono per il calore e per i bagliori, stava prendendo fuoco tutto. Arrivarono gli altri, arrabbiati e spaventati e il capo disse furibondo: "Ma che avete fatto, volete farci vedere da mezzo mondo? Vi rendete conto che poteva andar male per voi e per tutto il gruppo?"
Così i due ragazzotti capirono subito che non si erano messi a far una passeggiata, che le cose erano serie, che lì tutto dipendeva da tutti, che bisognava rigare dritto, ascoltare bene, stare sempre attenti, dormire con un occhio solo, stare in silenzio, non fare luce per mettere a repentaglio la propria vita e quella degli altri.
Cominciò così una vita da ribelle, da fuoriuscito, da malfattore, da nemico della patria, da poco di buono, da traditore, insomma, in una parola sola, da "partigiano".
Tante le avventure in quei mesi che separarono Dick e tutti gli altri, dalla "LIBERAZIONE", dalla fine di quell’incubo lungo vent’anni, da quelle privazioni, da quegli urlacci, da quella fame.
Le avventure che di tanto in tanto Dick raccontava in maniera sbocconcellata, senza essere preciso nei tempi e nei luoghi, quasi come se anch’io dovessi essere stata là con lui a quei tempi e quindi capire al volo la situazione, erano avventure per le quali il nostro sottolineava che comunque ne andava della pelle e non si doveva troppo chiedere, ma essere sempre ben svegli. Forse quando raccontava era veramente ancora lì in quella dimensione fra lo storico e il favoloso che aveva sconvolto la sua vita, lo aveva cambiato fino al midollo e aveva cambiato anche la vita di tutto un paese e quella futura dei suoi figli e di tutti gli altri figli.
Così quello che sto per narrarvi non è certo cosa che può interessare gli storici, né i cronisti, è solo un piccolo racconto a memoria di un sogno, di un mito, di una favola, anche se di una favola vera!
Dick fu messo in "formazione": erano piccoli gruppi di tre o quattro ragazzi più un capitano di squadra, nella quale ognuno aveva un compito: lui era il vivandiere, doveva badare alla grossa marmitta militare, che serviva per fare zuppe e polente, e bisognava guardarla a vista e trasportarla da un luogo all’altro se si voleva dar da mangiare a tutta la squadra. In più c’erano da reperire le cibarie,che di per sé era già una cosa non proprio facile. I poderi erano le loro dispense: senza farsi troppo notare, se ne andavano dalla massaia e chiedevano qualcosa da mangiare per la truppa, in cambio avevano dei fogli del CNL in cui era scritto che alla fine della guerra sarebbero stati risarciti di quanto avevano dato ai patrioti che combattevano per la liberazione. Insomma a volte era più facile a dirsi che a farsi, perché il minimo comune denominatore allora era la fame, la mancanza di cibo; gli unici luoghi munifici erano appunto i poderi, dove ancora si piantava qualcosa nell’orto e c’era sempre un piccolo pollaio.
Insomma Dick è in quel tempo che imparò a cucinare, arte di cui non si dimenticò mai. Il suo piatto forte era la polenta, bella, calda, rotonda, bassa, che si tagliava con il filo da cucire: delle belle fette tiepide che andavano giù che era un piacere.
Il gruppo era rifugiato in una zona sicura vicino a due poderi, dove si costruirono diversi capanni come quelli dei carbonai. La formazione era ormai molto numerosa, via via arrivavano nuovi giovanotti, che non volevano per niente partire per la guerra, né volevano difendere la nuova patria sotto gli stendardi della RSI. Della formazione, che a quel tempo si chiamava più semplicemente "banda", facevano parte anche due animali, un cane lupo di nome Mondiale ed un bel cavallone normanno che a causa del suo mantello fu nominato Sauro; erano le mascotte del gruppo: il cane scorrazzava felice fra i ragazzi e il cavallo veniva impiegato per portare i grossi carichi durante gli spostamenti. Purtroppo i due animali non fecero a tempo a vedere "il sol dell’avvenire", il cane fu abbattuto da un partigiano, con grande amarezza, perché non abbaiasse durante un’imboscata e il cavallo arse vivo mentre si trovava all’interno della stalla di un podere che venne incendiato dai fascisti. Anche loro vennero annoverati e per sempre ricordati fra i compagni caduti in quella guerra di Liberazione.
[1 - continua]
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID