E’ difficile, a volte, immaginare il dolore, immedesimarsi nell’anima di un personaggio per cui nella vita non esiste la pietà o il rimorso, senza essere comodamente seduti sulla poltrona di un multi sala.
In Hannibal Lecter le origini del male è tangibile la sensazione di smarrimento e impotenza riscattata con il sangue degli aguzzini della sua famiglia, è uno spesso muro di mattoni e cemento abbattuto con ferocia dall’ariete della vendetta.
Thomas Harris dipinge in modo magistrale il volto di un’Europa ferita e violentata dalla Seconda Guerra Mondiale, un’Europa in cui non conta più essere uomo o bambino ma solo il fatto che, di fronte alla disperazione e alla cieca follia, persino cibarsi di carne umana può rappresentare l’unica ancora di salvezza.
La rabbia perseguita l’uomo, se ne impossessa, cresce con lui anno dopo anno come un virus latente in attesa del momento giusto per esplodere con tutta la sua ragionevole forza.
Da rabbia a pazzia, da pazzia ad esasperazione nel famoso sequel “Il Silenzio degli Innocenti”.
Crudelmente comprensibili, ma non accettabili da una società giudice come la nostra o quella americana, le ragioni dell’odio di Hannibal e del suo impellente desiderio di saziare la fame dell’anima attraverso atti di cannibalismo mentre vano rimane il tentativo di spiegare la complessa psicologia del personaggio, un uomo fragile e forte allo stesso tempo, distrutto nello spirito e nei sentimenti, incapace, tuttavia, di rinunciare ad amare e difendere, a colpi di teste mozzate, colei a cui, sola, vale la pena donare l’unico frammento ancora vivo del suo cuore.
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