Aspetto il segnale, e intanto mi fumo una sigaretta standomene appoggiato all’angolo con la via centrale, quella delle botteghe, degli artigiani, del mercato del sabato, con il suo odore di pesce salato, di legumi, di pane, di trucioli e segatura. C’è quiete. Forse per il freddo, oppure perché è l’ora di pranzo. Eppure c’è una certa agitazione nella piazzetta vicina, quella con la chiesa dedicata a Santa Lucia, dove piccoli gruppi di donne e bambini si stringono attorno ai carrettini che vendono i dolci di miele e zucchero della tradizione che si mangiano solo oggi, 13 dicembre. Soffio sulle dita un po’ di tepore mescolato al fumo aspro della boccata, pensando che quelle persone non correranno rischi. Cico e Tarzan, sono in mezzo a loro, discreti, e sanno sempre cosa fare se qualcosa non va per il verso giusto.
Finisco di fumare e schiaccio la cicca a terra. Ho fame. Forse per la tensione. Come mi succedeva quand’ero in fuga dal reggimento. Avevo sempre fame. Una specie di languore che si spalmava dentro di me magari per distrarmi dalla paura, e dall’angoscia che mi procurava lo spettacolo continuo dei corpi che pendevano dagli alberi, uomini giovani, vecchi, colpevoli solo di non voler partire in guerra o di non voler estranei in casa nostra, impiccati lungo le strade di campagna o nelle piazze di città e paesi, con i cartelli di ammonimento ai vivi attaccati al collo.
Altri due compagni armati di Mab, Attila e Tom, se ne stanno nell’androne di un palazzo di fronte a me, pronti a coprirmi le spalle per la fuga. Dal cortile interno si snodano una serie di altri cortili comunicanti, una specie di piccolo ma intrigante labirinto da dove è facile dileguarsi in fretta.
Di nuovo sbircio oltre l’angolo. Il segnale arriva con la camminata svagata di uno che attraversa la strada come se non avesse nulla da fare. E’ Tonio, poco più di un ragazzo, con l’aria di chi dorme ancora con la luce accesa per paura del buio, ma con la pelle elettrica di chi vuole fare qualcosa di importante per essere utile al mondo. Sono comunista, mi dice ogni volta orgoglioso. E io gli rispondo che sono contento per lui, perché invece, di me, non lo so. A volte mi sembra di si, altre di no. E allora lui mi fissa serio, dice che devo stare tranquillo, di non preoccuparmi, che prima dobbiamo mandare via i tedeschi da casa nostra, e poi avremo il tempo per discutere bene di questa faccenda, e che mi spiegherà tutto per filo e per segno, e che anch’io diventerò un comunista bravo, senza più dubbi.
Quando Tonio raggiunge l’altro lato della strada mi guarda, e io gli faccio un cenno d’assenso quasi invisibile. Chino la testa e mi porto al centro della strada. La vettura arriva traballando, e io non mi muovo, sempre con lo sguardo a terra, come un ubriaco. I miei compagni mi dicono che sono troppo spavaldo, che rischio troppo, e che un giorno o l’altro pagherò caro questo mio atteggiamento. Invece sono solo convinto che la spavalderia sia un modo per spaventare il nemico, per fargli perdere lucidità e istinto, come quegli animali che paralizzano la preda con lo sguardo. L’auto non rallenta, forse l’autista non fa neanche caso a me. E’ ancora distante una trentina di metri. La lascio venire avanti senza spostarmi. Un colpo di clacson per farmi sloggiare. Alzo gli occhi, respiro a fondo e l’odore del freddo mi brucia i polmoni. L’auto è scoperta. Il destino vuole più bene a noi, e un po’ meno a quel pagliaccio del Barbetta.
La prima bomba a mano che lancio gli cade proprio in braccio. Mentre la tiro mi piego a terra e cammino gattoni verso il muro, con il pastrano che mi si arrotola sulla schiena, e il gelo dei lastroni di sasso che si appiccica alla pelle delle mani. Esplode subito. Polvere e schegge piovono tutto attorno. Mi accuccio vicino al muro per rendermi conto della situazione. Poi mi rialzo per correre verso il portone, e allo stesso tempo butto la seconda bomba in mezzo al fumo che si sta diradando lentamente.
Su quell’auto, oltre quel muro di fumo grigio, erano in tre: quella carogna in divisa nera del Calogero Barbetta e due tirapiedi. Credo che di loro sia rimasto ben poco, e lo penso mentre a testa bassa mi infilo nel portone pronto a sparire da quel posto il più in fretta possibile.
E’ una di quelle giornate in cui pensi che è difficile vivere. O che addirittura non vorresti neanche essere mai venuto al mondo. E pensi queste due cose solo perché sei convinto che sia immorale e irresponsabile cercare la terza soluzione, ovvero, puntare la canna del fucile contro te stesso. Ma sono abituato a vivere tra sbalzi d’umore e pensieri cupi.
Mi passo le mani nei capelli mentre butto giù i piedi dalla branda e il pastrano mi scivola di dosso. Bevo un po’ di caffé avanzato nel bicchiere dalla sera prima. E’ amaro, quasi sgradevole. Mi sento la bocca stanca e fredda, dura, come quando la rabbia ti rode dentro e non vedi soluzioni per la vita. Ho anche gli occhi stanchi, come se fossero pieni di sabbia. Forse perché non ho dormito.
Sono passate trentasei ore dall’attentato a Barbetta, e, dalle informazioni che abbiamo, la rappresaglia di tedeschi e fascisti è spietata. Stanno rastrellando la città come non era mai successo prima, e un sacco di gente è finita in carcere, trasportata come vitelli su camion che sono andati su e giù senza sosta per tutte queste ore. Un lugubre presagio. Ho paura per me. Per noi. E per loro. Ma non lo dico.
“Sono come cani affamati - Tarzan cerca di ridere mentre dice queste cose, forse per sdrammatizzare, o per togliersi la paura di dosso, forse per far vedere che è forte, e senza scrupoli sulla coscienza. E’ lui che fa la spola per portare cibo e notizie. - se riescono a metterci le mani addosso di noi non resta più nulla.” E stringe la testa di Attila, prendendolo alle spalle, e fingendo di mordergliela come un mostro delle favole. Attila prima brontola, poi ride anche lui. Non sono tante le occasioni per farlo, e allora ci siamo accorti che ci basta poco per approfittare di una mezza risata liberatoria. Attila sembra invisibile, è quello che non parla mai, non domanda, lui ascolta e sorride sempre, senza mai staccarsi dalla sua arma. Le teniamo vicine a noi come cuccioli da accudire.
“Se reagiscono così vuol dire che hanno paura.” Commenta Tom, e tutti noi scrolliamo la testa per dire che siamo d’accordo. Ci temono, e questo è un segno della loro debolezza. Temono soprattutto che noi possiamo diventare un esempio da seguire. Siamo un virus da debellare il più in fretta possibile.
“Forse è il segnale che stanno per crollare.” Aggiungo io, e vorrei dire anche che, secondo me, ne abbiamo ancora per qualche mese di questa vita schifosa, e poi l’incubo finirà. Ma non ho lo stato d’animo per rassicurare nessuno, e sto zitto.
Mi avvicino al pianoforte. Me lo ricordo messo lì da sempre, mezzo traballante e con l’avorio dei tasti ormai giallo come polenta. Faccio un paio d’accordi stando in piedi, giusto per spezzare la tensione delle dita.
“Io invece suono la grancassa nella banda del paese.” Mi dice Cico mettendosi dietro di me. Me lo dice tutte le volte, ma preferisco non farglielo notare. Non ho nemmeno lo spirito per prendere in giro qualcuno. Poi Tonio mi dice dai, suonaci qualcosa. E io mi siedo e incomincio con gli stessi pezzi che suono da sempre, le uniche melodie che conosco. Attacco con il Notturno di Chopin facendo i salti mortali tra tasti che mancano e altri scordati. E’ stata Loretta ad insegnarmeli negli anni in cui eravamo giovani e fidanzati, seduti sugli stessi banchi del Ginnasio, con la prospettiva di sposarci appena io avessi finito gli studi. Volevo studiare letteratura, greco e latino, i classici e i moderni senza distinzione alcuna, e fare l’insegnante di Liceo, anche se mia madre mi ripeteva che a insegnare si guadagna poco, e si fa tanta fatica a imparare. Meglio fare il dottore.
Ma io non mi sentivo portato a sopportare i dolori degli altri. Esattamente quello che mi turba adesso, da quando ho saputo dei rastrellamenti. Mi spaventa l’idea che qualcuno paghi per qualcosa che non ha fatto, che la barbarie dei nostri nemici sputi sulle più elementari regole del diritto, e che punisca innocenti anziché venire da a noi, a guardarci negli occhi, a misurarsi ad armi pari.
“Sono convinti che non abbiamo fatto in tempo a uscire dalla città. - dice Tarzan. – Sono nervosi e hanno paura di perdere il controllo della situazione. Hanno messo in giro degli avvisi, ci danno un giorno per arrenderci…”
“E poi?” chiede Cico grattandosi la testa sotto il cappello di lana. Nessuno parla, anche se tutti noi conosciamo la risposta. I tedeschi vogliono la banda del comandante Loris al completo per appendere pure noi ad un albero in piazza. Altrimenti trenta persone finiranno davanti al plotone d’esecuzione. Dieci per ogni morto.
Noi invece siamo al sicuro in questa vecchia cascina dove mi portavo Loretta ad amoreggiare sopra ad un materasso di foglie. La baciavo sul collo e le accarezzavo il seno, e se esageravo un po’ mi diceva di smetterla, e mi dava uno schiaffo sulle mani, e metteva il broncio perché ero poco serio.
La notizia dei rastrellamenti è dura da mandare giù.
Per ognuno di noi.
“Questa guerra deve finire. – dice Cico - E presto.”
“Dobbiamo eliminare lo sterco che Hitler e Mussolini hanno rovesciato su tutta l’Europa.” Gli fa eco Tom.
“E per farlo bisogna prendere la ramazza, - dice Tonio – ma lo sappiamo che quando si spala merda si finisce sempre per sporcarsi le mani.”
“Ma alla fine si respira aria pulita.”
“Non abbiamo nulla da recriminare – dico io, come è giusto che dica un capo – nulla di cui ci dobbiamo vergognare o pentire, siamo dei combattenti e abbiamo fatto il nostro dovere fino in fondo.”
Nessuna sembra aver voglia di andare avanti con quel discorso. Ognuno, con i suoi dubbi e le sue certezze, è nudo di fronte a se stesso, pronto a fare i conti con il proprio cuore e i propri pensieri. Si parla poco, non si discute di nulla, la politica, per una volta, è finita in un angolo, dell’amore non si sa cosa dire, ce lo stiamo dimenticando tutti, intrappolati qui dentro senza poterci neanche lontanamente immaginare il corpo o il sorriso di una donna. Meglio tenere lontane le tentazioni. Tutti abbiamo gli stessi pensieri e turbamenti ma nessuno osa confessarlo, perché, appena svelato il dubbio, bisogna essere pronti a trovare risposte convincenti. Non si può neanche cedere al ricatto infame dei macellai nazisti che occupano casa nostra.
Quando entriamo in azione ci sorregge l’ideale. Ma questa volta è il nostro senso di umanità che viene messo a dura prova. In più siamo isolati, senza contatti con altri gruppi partigiani, interrotti dalla massiccia presenza di tedeschi in zona. Mancano ordini chiari.
In queste ore si dorme. A turni. Si ingrassano le scarpe. Si gioca a scopa. Si vince e si perde, ma il tutto scorre senza lasciare segni. Poi a un certo punto Tarzan si alza.
“Torno in città.” Dice. Lo seguo mentre esce, lo vedo saltare sulla bici e allontanarsi pedalando con il culo sollevato dal sellino. Guardo la campagna con occhi socchiusi, come un gatto sul muro di casa, e cerco di assorbire la pioggia di luce azzurra che carica di vita i pochi colori dell’inverno. L’umidità della notte e il gelo del giorno hanno trasformato gli alberi in figure geometriche, stilizzate, coperti da una ragnatela fitta e sottile di cristalli di ghiaccio.
Provo a interrogarmi in silenzio. Ho una specie di ferita dolorosa dentro di me, dalla quale sembra colare il succo della mia solitudine e della mia tristezza. Sono due anni che fuggo e mi sono sempre chiesto dove sta la mia libertà, se c’è differenza a vivere braccato guardandomi alle spalle ogni istante, o a stare dietro le sbarre di una galera sotto gli occhi dei secondini. Forse l’unica differenza è che in galera non si sente l’odore aspro della campagna d’inverno, l’odore del mattino delle zolle aride e dure, della terra che diventa umida con la notte. Gli odori e i rumori sono quanto mi resta ancora per cogliere la bellezza di certi angoli della vita.
La mia fuga dal reggimento è finita nella città dove sono nato e cresciuto, l’unico posto al mondo dove mi sarei sentito tranquillo qualunque cosa avessi deciso di fare. Sono tornato senza farmi vedere da nessuno di quelli che conosco, facendo avere poche notizie a mia madre, per dirle della scelta che avevo fatto, e che mi sentivo con la coscienza a posto. Niente era cambiato dal giorno che ero partito con i gradi da tenente. Stesso posto, stesse facce, stessi nomi, negozi e vetrine. Stessi capoccia fascisti. E non mi sarei mai immaginato, allora, che sarei stato proprio io quello che avrebbe fatto saltare in aria quel boia di Calogero Barbetta.
Penso a Loretta.
Non la vedo da due anni. Penso a questo amore abbandonato, così senza una parola, un saluto, una spiegazione. Così, semplicemente travolto dagli eventi.
Penso a Lorella che non conoscerà mai il comandante Loris, e con lui nemmeno il vero volto dell’uomo con cui faceva progetti per il futuro. E nel suo cuore forse non pensava neanche che potesse mai esistere un comandante Loris.
Comandante Loris. Un uomo sconosciuto anche a me stesso fino ad un anno fa, capace di accettare l’omicidio come una parte necessaria della lotta politica. Credo che pochi accettino l’idea di far saltare in aria con una bomba a mano un altro uomo. Anche se si tratta di un nemico. Ma succede. Più di quanto si possa pensare. E ognuno trova la sua motivazione. Nell’ignoranza, nella superbia, nella gelosia, oppure nell’ideologia. Ma alla fine ognuno, per necessità o per virtù è capace di premere con un dito un maledetto grilletto, oppure di strappare con i denti un anello di metallo. E fare esplodere la testa e il cuore di un suo simile.
L’eccesso. Ecco cosa sta dietro la morte.
Un eccesso. Un eccesso di mille cose che sfuggono al controllo della ragione, dell’umanità, intrecciate tra loro a formare una matassa di cui si perde il capo.
Tutti quelli che combattono con me mi chiamano Loris. Ancora un po’ che duri questa maledetta guerra e dimenticherò anche il mio vero nome. E vivere con un nome che non ti appartiene è la più grande menzogna che puoi dire a te stesso. Tutto questo rientra nella logica della guerra. E quando la guerra è clandestina come la nostra non si tratta più solo di pensare o la tua pelle o la mia come succedeva in trincea, ma anche di dover credere fino in fondo che sei spinto dall’idea che solo un’altra guerra può far finire la guerra originaria.
Guardo verso il cielo il fumo della sigaretta mescolarsi al vapore del respiro, e un rumore mi distrae. Vedo spuntare la bici di Tarzan. Sta tornando indietro di corsa.
“Una pattuglia… - mi dice saltando giù dal sellino con l’ansia che gli scuote il petto – …tedeschi, e stanno venendo da questa parte.”
“Dobbiamo andarcene via.” dico io infilandomi in casa. E’ questione di un attimo, e siamo tutti pronti, scarponi nei piedi, tascapane a tracolla e armi in mano. Lasciamo tutto com’è, e usciamo da dietro in fila indiana con la schiena curva. Non abbiamo neanche il tempo d’aver paura. Poco distante c’è una piccola altura. Dobbiamo raggiungerla a tutti i costi. E’ il posto migliore per nasconderci o per difenderci senza rischiare di finire accerchiati. Esco per ultimo, butto uno sguardo alle mie spalle, non c’è nemmeno il tempo per mettere in ordine i pensieri, i ricordi o per suonare Chopin un’ultima volta. Siamo stritolati da un meccanismo di forza che sembra essere l’unico argine alla barbarie del nostro nemico.
Saltiamo al di là dell’altura con il gelo della campagna che ci sferza la pelle. Ci buttiamo pancia a terra. Vediamo i primi elmetti tedeschi sbucare attorno alla casa, sentiamo le prime parole secche, dure, spigolose. La lingua italiana nelle loro bocche sembra stridere come unghie sul vetro. Incominciano ad agitarsi, a muoversi stando in allerta. Si guardano attorno e stringono le armi come fossero funi per aggrapparsi alla vita. Altra carne da macello, e forse oggi qualcuno di loro tornerà a casa accompagnato da una busta di condoglianze dell’esercito ai suoi parenti in Germania.
Non so cosa succederà da qui a poco. Forse niente, forse di tutto. Forse scoppierà una piccola battaglia, una delle tante nel mezzo di una grande guerra. Un pezzo di esercito grande che combatterà senza coprirsi di gloria contro una piccola banda mezza disarmata.
Cico e Tarzan sono stesi alla mia destra. A sinistra gli altri. Tom, Attila, Tonio. Li guardo, e capisco che posso contare su di loro. Se servirà saranno pronti a combattere adesso per godersi, dopo, la fine di questo incubo.
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